Sono profondamente convinto che la vera letteratura si possa trovare anche in testi inaspettati. Invito tutti i lettori di questo blog a prendersi un quarto d'ora della propria giornata per condividere questo spicchio di realtà:
Anna è una donna di 42 anni, sposata, con due figli quasi adolescenti, che lavora in un reparto ospedaliero. Dopo alcuni contatti con psichiatri in abito privato e un ricovero in ospedale, giunge al DSM, accetta la terapia farmacologica dello psichiatra, con il quale stabilisce subito un'alleanza positiva, caratterizzata da un trasfert paterno sottilmente idealizzato, ed accetta l'invito alla psicoterapia.
Il sintomo che la porta in psicoterapia è il frequente ricorso ad agiti autolesionistici: utilizzando gli strumenti di sala operatoria che ha quotidianamente a disposizione, si procura dei tagli, spesso profondi e in zone del corpo pericolose, come sul collo vicino all'arteria carotidea o all'intenro della gamba vicino alla femorale. Sutura da sola le ferite, e successivamente inizia ad aprirle e a richiuderle più volte, "perché non sono state chiuse come voglio, in modo perfetto, senza dolore". Di alcune ferite "festeggia il compleanno": "la più vecchia ha compiuto due anni ad agosto". Grazie a queste ferite ha imparato a "non avere più paura di niente" e si è esercitata a "provare meno dolore: è come se mi fossi pian piano anestetizzata contro il dolore". Le ferite non sono mai guarite abbastanza bene per Anna, continua ad aprirle e richiuderle, fino a far diventare dura la carne intorno e a rendere le cicatrici irrimediabilmente vistose. Ha anche molti segni sul viso: brufoli che vengono infettati e tormentati per mesi, fino a creare ferite sempre più estese: così un'herpes labiale si trasforma in una cicatrice che arriva fino al naso.
Con fatica ed estrema sofferenza racconta l'episodio che l'ha fatta precipitare in una profonda crisi depressiva: alcuni anni prima scopre di avere un nodulo al seno, che lei "sentiva" maligno, nonostante il parere di tutti i medici interpellati - così almeno lei riferisce - riesce a farsi operare nel febbraio 2002 e, fatalmente, il tumore è risultato maligno. E' molto arrabbiata con i medici perché, e lo sottolinea con enfasi, "nessuno ha voluto vedere il fatto che io stavo male davvero, hanno cercado di convincermi che non avevo niente".
Ha vissuto come una costrizione e una "violenza sul corpo" prima la chemioterapia e poi la radioterapia, e nel frattempo è andata sviluppando la convinzione che il suo corpo aveva dato quel chiaro segnale e che lei forse avrebbe dovuto morire; aggiunge che se il male dovesse tornare, non si farebbe più operare e lascerebbe che il tumore avesse il suo percorso, perché in fondo pensa di aver assolto i suoi compiti fondamentali e desidera soltanto morire. Non ha mai effettuato i controlli clinici necessari, "non per paura di sapere se c'è qualcosa che non va, ma per paura di sentirsi dire che va tutto bene".
Riferisce spesso pensieri di morte: "non il suicidio, perchè è connotato troppo negativamente dal giudizio sociale, ma modi molto più fini e meno sospetti che ho a disposizione quotidianamente, come il pungermi con siringhe infette o uscire di strada con l'auto", oppure spera nel ritorno del male, "così come nessuno potrebbe dire che sono una vigliacca, ma vedrebbero il dolore della mia anima".
Descrive spesso sentimenti di un vuoto profondo, che nullifica ogni cosa: se stessa, i suoi progetti, la sua famiglia. Una delle immagini più eloquenti che la paziente utilizza per descrivere se stessa è la seguente metafora: si sente come su una scacchiera, su cui c'è tutta la sua vita, ma alcune caselle sono buche, cadendo nelle quali si precipita in un luogo nero e senza fondo.
Sin dal primo colloquio con lo psichiatra, e poi nelle 15 sedute che precedono una interruzione temporanea del trattamente, la signora allude, chiedendo peraltro di non approfondire l'argomento, ad un abuso sessuale da lei subito da parte del padre, iniziato quando lei aveva 5 anni e protrattosi fino all'adolescenza. Solo in quel momento riferisce di aver iniziato a comprendere "l'orrore di quei gesti: allora il dolore del corpo si è trasformato in un dolore dell'anima". Non ha mai raccontato a nessuno questa vicenda così drammatica. "Ma come facevano a essere così scemi da non vedere che stavo male? Mi sgridavano, dicendomi che non avevo niente. Nessuno ha mai voluto vedere".
Durante la prima parte del trattamento, Anna non si ferisce sostanzialmente più. Inizia però a mangiare in modo compulsivo, senza fame, aumentando di diversi chili; rispetto a questo, si chiede da sola se abbia spostato la sua sofferenza sul cibo "per colmare il vuoto che sento dentro".
L'interruzione, il "taglio" delle sedute, che ha dinamiche profonde e complesse, prende forma in un momento in cui la terapeuta, a seguito di particolari dinamiche tra la paziente e la famiglia del marito, la invita a permettersi di essere arrabbiata per l'atteggiamento e i comportamenti svalutativi della suocera.
Il nuovo ricorrere ad agiti autolesionistici e la mantenuta alleanza con lo psichiatra portano Anna a decidere di "ricucire" il setting e di riprendere la terapia. Sin dalla prima seduta, e per le successive 18, risulta evidente che la paziente ha deciso che qualcuno possa vedere le ferite della sua anima e che il suo niente debba finalmente avere una forma ed un significato.
Il racconto degli abusi è drammatico, ma possibile. Un sogno ed un ricordo in particolare le permettono di comprendere parte del significato del suo continuo ferirsi: ricorda che il padre una volta le aveva dato un fazzoletto bianco di stoffa per pulirsi, che si era sporcato di sangue; a questo associa la sua abitudine di non utilizzare garze sterili per coprire le ferite, che possono poi essere buttate, ma fazzoletti bianchi, che poi si trova a dover ossessivamente lavare. Nel corso delle sedute riesce a tollerare ed elaborare il pensiero che l'impulso a tratti incontrollabile non tanto di ferirsi, ma di riaprire le ferite, per farle guarire alla perfezione e completamente, senza dolore, rappresenta simbolicamente il tentativo di cancellare e guarire senza più dolore il ricordo degli abusi.
Verso la fine della terapia Anna può permettersi di riconoscere, vivere emotivamente ed esprimere l'aggressività verso la madre, che "sapeva" e non ha fatto nulla per proteggerla, e verso la famiglia del marito. Riesce anche, per la prima volta nella vita, ad imporsi con il padre in una circostanza familiare. Alla 32° seduta, contemporaneamente all'avvicinarsi della conclusione della psicoterapia, Anna porta un elemento nuovo: è andata dalla dermatologa per farsi aiutare a curare le cicatrici sul viso ed ha accettato per la prima volta che un collega le suturasse una ferita.
L'analisi si chiude con la riflessione che l'aver permesso alla terapeuta di vedere realmente le ferite di Anna, non solo le cicatrici sul corpo ma anche "i mali dell'anima", le ha permesso di liberarsi dalla coazione di ripeterle ossessivamente a scopo catartico, integrandole in parte nella propria storia, e, così facendo, potendo prendersene cura.
Il corpo è il teatro dei drammi esistenziali di questa paziente, mai visto e riconosciuto nel suo dolore (così almeno il suo vissuto), siano essi i genitori, i medici, i familiari del marito, il marito stesso. Il corpo dunque come veicolo non di esperienze di tenerezza ed accudimento, ma di dolore e mancato riconoscimento, che divengono "incontenibili": l'enuresi notturna fino alla scuola media, l'abuso da parte del padre fino all'adolescenza, l'impossibilità di sperimentare la tenerezza e l'intimità sessuale con il marito, il tumore al seno, fino ad arrivare alle ferite autoinferte e a tratti all'iperalimentazione compulsiva.
L'esperienza del tumore, con le fantasia angosciose legate ad un male interno portatore di morte, può aver svolto la funzione di "detonatore psicosomatico". La sintomatologia autolesionistica sembra rappresentare un tentativo di auto-protezione ad alto contenuto simbolico, emotivo ed affettivo, gestita attraverso fantasia e modalità di controllo onnipotente, ossessivo e passivo-aggressivo, allo scopo di proteggere il Sé da angoscie dis-individuative di vuoto e mancato riconoscimento profondo; dal punto di vista relazionale tale sintomatologia rimanda alla rappresentazione aggressiva ed accusatoria del proprio dolore di fronte a coloro che non hanno visto.
Il primo follow-up a 3 mesi conferma che Anna non ha più fatto ricorso ad agiti anticonservativi. Questo ci permette di ipotizzare che l'interpretazione del significato simbolico degli agiti anti-conservativi ha permesso alla paziente di mentalizzare la propria sofferenza interna, rendendola libera, almeno in questo momento, di non utilizzare più il corpo per esprimerla.
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Ricopiato da B. Simonelli, S. Fassina, M. Scaldaferro, E. Guastafiero, A. Ferrario - Dis-socialità e autolesionismo nel Disturbo Borderline di Personalità: due casi clinici, in Rivista di Psicologia Individuale, n.62, luglio-dicembre 2007, rubata alla Biblioteca Tibaldi di Milano, ieri notte.
Anna è una donna di 42 anni, sposata, con due figli quasi adolescenti, che lavora in un reparto ospedaliero. Dopo alcuni contatti con psichiatri in abito privato e un ricovero in ospedale, giunge al DSM, accetta la terapia farmacologica dello psichiatra, con il quale stabilisce subito un'alleanza positiva, caratterizzata da un trasfert paterno sottilmente idealizzato, ed accetta l'invito alla psicoterapia.
Il sintomo che la porta in psicoterapia è il frequente ricorso ad agiti autolesionistici: utilizzando gli strumenti di sala operatoria che ha quotidianamente a disposizione, si procura dei tagli, spesso profondi e in zone del corpo pericolose, come sul collo vicino all'arteria carotidea o all'intenro della gamba vicino alla femorale. Sutura da sola le ferite, e successivamente inizia ad aprirle e a richiuderle più volte, "perché non sono state chiuse come voglio, in modo perfetto, senza dolore". Di alcune ferite "festeggia il compleanno": "la più vecchia ha compiuto due anni ad agosto". Grazie a queste ferite ha imparato a "non avere più paura di niente" e si è esercitata a "provare meno dolore: è come se mi fossi pian piano anestetizzata contro il dolore". Le ferite non sono mai guarite abbastanza bene per Anna, continua ad aprirle e richiuderle, fino a far diventare dura la carne intorno e a rendere le cicatrici irrimediabilmente vistose. Ha anche molti segni sul viso: brufoli che vengono infettati e tormentati per mesi, fino a creare ferite sempre più estese: così un'herpes labiale si trasforma in una cicatrice che arriva fino al naso.
Con fatica ed estrema sofferenza racconta l'episodio che l'ha fatta precipitare in una profonda crisi depressiva: alcuni anni prima scopre di avere un nodulo al seno, che lei "sentiva" maligno, nonostante il parere di tutti i medici interpellati - così almeno lei riferisce - riesce a farsi operare nel febbraio 2002 e, fatalmente, il tumore è risultato maligno. E' molto arrabbiata con i medici perché, e lo sottolinea con enfasi, "nessuno ha voluto vedere il fatto che io stavo male davvero, hanno cercado di convincermi che non avevo niente".
Ha vissuto come una costrizione e una "violenza sul corpo" prima la chemioterapia e poi la radioterapia, e nel frattempo è andata sviluppando la convinzione che il suo corpo aveva dato quel chiaro segnale e che lei forse avrebbe dovuto morire; aggiunge che se il male dovesse tornare, non si farebbe più operare e lascerebbe che il tumore avesse il suo percorso, perché in fondo pensa di aver assolto i suoi compiti fondamentali e desidera soltanto morire. Non ha mai effettuato i controlli clinici necessari, "non per paura di sapere se c'è qualcosa che non va, ma per paura di sentirsi dire che va tutto bene".
Riferisce spesso pensieri di morte: "non il suicidio, perchè è connotato troppo negativamente dal giudizio sociale, ma modi molto più fini e meno sospetti che ho a disposizione quotidianamente, come il pungermi con siringhe infette o uscire di strada con l'auto", oppure spera nel ritorno del male, "così come nessuno potrebbe dire che sono una vigliacca, ma vedrebbero il dolore della mia anima".
Descrive spesso sentimenti di un vuoto profondo, che nullifica ogni cosa: se stessa, i suoi progetti, la sua famiglia. Una delle immagini più eloquenti che la paziente utilizza per descrivere se stessa è la seguente metafora: si sente come su una scacchiera, su cui c'è tutta la sua vita, ma alcune caselle sono buche, cadendo nelle quali si precipita in un luogo nero e senza fondo.
Sin dal primo colloquio con lo psichiatra, e poi nelle 15 sedute che precedono una interruzione temporanea del trattamente, la signora allude, chiedendo peraltro di non approfondire l'argomento, ad un abuso sessuale da lei subito da parte del padre, iniziato quando lei aveva 5 anni e protrattosi fino all'adolescenza. Solo in quel momento riferisce di aver iniziato a comprendere "l'orrore di quei gesti: allora il dolore del corpo si è trasformato in un dolore dell'anima". Non ha mai raccontato a nessuno questa vicenda così drammatica. "Ma come facevano a essere così scemi da non vedere che stavo male? Mi sgridavano, dicendomi che non avevo niente. Nessuno ha mai voluto vedere".
Durante la prima parte del trattamento, Anna non si ferisce sostanzialmente più. Inizia però a mangiare in modo compulsivo, senza fame, aumentando di diversi chili; rispetto a questo, si chiede da sola se abbia spostato la sua sofferenza sul cibo "per colmare il vuoto che sento dentro".
L'interruzione, il "taglio" delle sedute, che ha dinamiche profonde e complesse, prende forma in un momento in cui la terapeuta, a seguito di particolari dinamiche tra la paziente e la famiglia del marito, la invita a permettersi di essere arrabbiata per l'atteggiamento e i comportamenti svalutativi della suocera.
Il nuovo ricorrere ad agiti autolesionistici e la mantenuta alleanza con lo psichiatra portano Anna a decidere di "ricucire" il setting e di riprendere la terapia. Sin dalla prima seduta, e per le successive 18, risulta evidente che la paziente ha deciso che qualcuno possa vedere le ferite della sua anima e che il suo niente debba finalmente avere una forma ed un significato.
Il racconto degli abusi è drammatico, ma possibile. Un sogno ed un ricordo in particolare le permettono di comprendere parte del significato del suo continuo ferirsi: ricorda che il padre una volta le aveva dato un fazzoletto bianco di stoffa per pulirsi, che si era sporcato di sangue; a questo associa la sua abitudine di non utilizzare garze sterili per coprire le ferite, che possono poi essere buttate, ma fazzoletti bianchi, che poi si trova a dover ossessivamente lavare. Nel corso delle sedute riesce a tollerare ed elaborare il pensiero che l'impulso a tratti incontrollabile non tanto di ferirsi, ma di riaprire le ferite, per farle guarire alla perfezione e completamente, senza dolore, rappresenta simbolicamente il tentativo di cancellare e guarire senza più dolore il ricordo degli abusi.
Verso la fine della terapia Anna può permettersi di riconoscere, vivere emotivamente ed esprimere l'aggressività verso la madre, che "sapeva" e non ha fatto nulla per proteggerla, e verso la famiglia del marito. Riesce anche, per la prima volta nella vita, ad imporsi con il padre in una circostanza familiare. Alla 32° seduta, contemporaneamente all'avvicinarsi della conclusione della psicoterapia, Anna porta un elemento nuovo: è andata dalla dermatologa per farsi aiutare a curare le cicatrici sul viso ed ha accettato per la prima volta che un collega le suturasse una ferita.
L'analisi si chiude con la riflessione che l'aver permesso alla terapeuta di vedere realmente le ferite di Anna, non solo le cicatrici sul corpo ma anche "i mali dell'anima", le ha permesso di liberarsi dalla coazione di ripeterle ossessivamente a scopo catartico, integrandole in parte nella propria storia, e, così facendo, potendo prendersene cura.
Il corpo è il teatro dei drammi esistenziali di questa paziente, mai visto e riconosciuto nel suo dolore (così almeno il suo vissuto), siano essi i genitori, i medici, i familiari del marito, il marito stesso. Il corpo dunque come veicolo non di esperienze di tenerezza ed accudimento, ma di dolore e mancato riconoscimento, che divengono "incontenibili": l'enuresi notturna fino alla scuola media, l'abuso da parte del padre fino all'adolescenza, l'impossibilità di sperimentare la tenerezza e l'intimità sessuale con il marito, il tumore al seno, fino ad arrivare alle ferite autoinferte e a tratti all'iperalimentazione compulsiva.
L'esperienza del tumore, con le fantasia angosciose legate ad un male interno portatore di morte, può aver svolto la funzione di "detonatore psicosomatico". La sintomatologia autolesionistica sembra rappresentare un tentativo di auto-protezione ad alto contenuto simbolico, emotivo ed affettivo, gestita attraverso fantasia e modalità di controllo onnipotente, ossessivo e passivo-aggressivo, allo scopo di proteggere il Sé da angoscie dis-individuative di vuoto e mancato riconoscimento profondo; dal punto di vista relazionale tale sintomatologia rimanda alla rappresentazione aggressiva ed accusatoria del proprio dolore di fronte a coloro che non hanno visto.
Il primo follow-up a 3 mesi conferma che Anna non ha più fatto ricorso ad agiti anticonservativi. Questo ci permette di ipotizzare che l'interpretazione del significato simbolico degli agiti anti-conservativi ha permesso alla paziente di mentalizzare la propria sofferenza interna, rendendola libera, almeno in questo momento, di non utilizzare più il corpo per esprimerla.
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Ricopiato da B. Simonelli, S. Fassina, M. Scaldaferro, E. Guastafiero, A. Ferrario - Dis-socialità e autolesionismo nel Disturbo Borderline di Personalità: due casi clinici, in Rivista di Psicologia Individuale, n.62, luglio-dicembre 2007, rubata alla Biblioteca Tibaldi di Milano, ieri notte.
5 commenti:
a volte mi sconvolgo... le malattie mentali e la descrizione dei loro casi non sono "letteratura". Le sofferenze umane, specie se reali, non andrebbero trattate in questo modo. Non sono spunti per saziare un'irrefrenabile curiosità o per aiutare la caccia verso emozioni che, fortunatamente, non si provano.
La letteratura parte da un vissuto per creare dei mondi verosimili, sono aberrata dal processo contrario. Le sofferenze e le malattie non sono mondi verosimili purtroppo, specie le malattie mentali.
Aspetta..che vuoi dire, che sei sconvolta per la considerazione "alta" (e "inaspettata", ho aggiunto) che attribuisco a questo scritto?
Mi dispiace. Secondo me non hai compreso bene il senso che volevo dare a questo estratto...
E non sono d'accordo sulla tua definizione di letteratura: credo che narrando del VERO si possa fare letteratura, e viceversa: non centra la verosimiglianza..
Altrimenti come ti spieghi, perdonami, le grandissime pagine scritte (involontariamente) da Bernal del Castillo quando si trovava a fare da semplice "reporter" della conquista di Tenochlan? O delle cronache tragiche e avvicenti di certe guerre, di certe situazioni ai limite del fantastico (che pure sono VERE)? O, per ultimo, del libro "gomorra" che ha narrato mirabilmente la cronaca con toni narrativi, appassionanti, e non glaciali?
Valore "letterario" non vuol dire svilimento. Tutt'altro.
Scusa, a mio avviso le sofferenze umane, SPECIE se reali, possono ottenere dalla letteratura una valorizzazione e una visibilità che con il freddo distacco non avrebbero mai.
Difatti questo report medico è stato scritto con inusitata passione, affinche' qualcuno potesse diffonderlo e non relegarlo in una biblioteca..
Continuiamo a discutere!
l'utente anonimo si rammarica che un altro spunto "interessante" sia finito nel..cesso...:(
L'utente anonimo non può dichiarare certe cose. Ciò che è interessante per lui non è detto che lo sia per il resto del mondo.
l'utente anonimo lo sa..però esiste quella che si chiama "gentile partecipazione proporzionale allo sforzo fatto per il coinvolgimento", prevista dall'art 234 del Codice di Netiquette approvato da me medesimo nel 2004...
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