NON era mai successo, almeno negli ultimi vent'anni, che avessimo due film così importanti in concorso a Cannes. Film innovativi, attesissimi non solo dalla critica ma anche dal pubblico, di autori giovani e non vecchi bacucchi di Cinecittà: insomma opere da difendere e sostenere non solo per la loro -poco sbandierata- "italianità".
Il primo film è Gomorra, diretto da Matteo Garrone (un autore che ho adorato ne L'imbalsamatore -sempre ambientato nel degrado napoletano- e un po' meno in Primo Amore - che è comunque un'opera originalissima) tratto dall'omonimo romanzo di Roberto Saviano. Ne ho seguito quasi tutte le fasi produttive, ovviamente partendo dal successo del libro fino alla scelta del cast, con le file di scugnizzi che si accalcavano a Scampia per avere una particina nel film, le voci sulle invidie e le vanità dei boss che sarebbero finiti rappresentati nella pellicola, le leggende urbane sulla colonna sonora, gli attori, gli avanzi di galera reclutati per la bisogna.
Il secondo film in concorso è Il divo, dedicato come tutti ormai sanno agli ultimi vent'anni della vita di Giulio Androtti, narrati seguendo uno schema cronaca/flashback che propone divagazioni visionarie, esplosioni di violenza, rallenti esasperanti -alla Peckimpah!- e pure momenti di intima riflessione.
Per una interessante coincidenza, un regista romano (Garrone) racconta Napoli (ma non solo) mentre un regista napoletano (Sorrentino) racconta il potere a Roma (ma non solo). Tutti e due film sono prodotti dalla Fandango di Domenico Procacci.
Sono opere particolarissime per la loro vicinanza, per la loro adesione alla realtà di questi anni pur senza rinunciare -come si faceva nel cinema d'impegno dei primi anni Novanta, quello dei Gianni D'Amelio e dei Tullio Giordana per intenderci- ad una chiara ed esibita impronta autoriale. Film che inseguono una ambiziosissima definizione di "belle immegini": suggestivi, virtuosi, quasi onirici, eppure saldamente con i piedi per terra. Qualcosa che mancava, oserei dire, dai tempi di Bertolucci (vedi Novecento, 1976) e di Petri (La classe operaia va in paradiso, 1972).
Il primo film è Gomorra, diretto da Matteo Garrone (un autore che ho adorato ne L'imbalsamatore -sempre ambientato nel degrado napoletano- e un po' meno in Primo Amore - che è comunque un'opera originalissima) tratto dall'omonimo romanzo di Roberto Saviano. Ne ho seguito quasi tutte le fasi produttive, ovviamente partendo dal successo del libro fino alla scelta del cast, con le file di scugnizzi che si accalcavano a Scampia per avere una particina nel film, le voci sulle invidie e le vanità dei boss che sarebbero finiti rappresentati nella pellicola, le leggende urbane sulla colonna sonora, gli attori, gli avanzi di galera reclutati per la bisogna.
Il secondo film in concorso è Il divo, dedicato come tutti ormai sanno agli ultimi vent'anni della vita di Giulio Androtti, narrati seguendo uno schema cronaca/flashback che propone divagazioni visionarie, esplosioni di violenza, rallenti esasperanti -alla Peckimpah!- e pure momenti di intima riflessione.
Per una interessante coincidenza, un regista romano (Garrone) racconta Napoli (ma non solo) mentre un regista napoletano (Sorrentino) racconta il potere a Roma (ma non solo). Tutti e due film sono prodotti dalla Fandango di Domenico Procacci.
Sono opere particolarissime per la loro vicinanza, per la loro adesione alla realtà di questi anni pur senza rinunciare -come si faceva nel cinema d'impegno dei primi anni Novanta, quello dei Gianni D'Amelio e dei Tullio Giordana per intenderci- ad una chiara ed esibita impronta autoriale. Film che inseguono una ambiziosissima definizione di "belle immegini": suggestivi, virtuosi, quasi onirici, eppure saldamente con i piedi per terra. Qualcosa che mancava, oserei dire, dai tempi di Bertolucci (vedi Novecento, 1976) e di Petri (La classe operaia va in paradiso, 1972).
Per una volta mi sento di fare il tifo per noi.
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