venerdì 5 settembre 2008

Favole / Cuore di vetro.



Era intorno alla gabbia dei gorilla di montagna, quelli imponenti, maestosi e dalla schiena argentata, che i visitatori dello zoo di Munster si erano accalcati: a vedere Gana, una mamma di undici anni, fiera nella sua maturità, che correva avanti e indietro come una pazza, con il suo cucciolo sulle spalle. Non prestava attenzione a chi le lanciava cibo, a chi le faceva "ciao" con la mano. Aveva fatto un sogno orribile. Si era svegliata di soprassalto, quasi soffocata dai riverberi del sole agostano, e aveva scoperto che quello non era affatto un sogno: il figlio prediletto, il piccolo Claudio-dal-cuore-malato che si stancava presto dopo ogni gioco, dopo ogni corsa, non mangiava più, non si muoveva più.

Fuori, dall’altra parte del vetro che circondava la gabbia, pochi si accorsero che quel fagotto di pelo era aggrappato alle sue spalle solo per inerzia. Gridavano per l’eccitazione, i bambini, lanciavano noccioline, e i poppanti strappavano manciate di erba alta, tra battiti di mani e borboglii.

Poi, tra l’indifferenza degli altri gorilla, Gana si mise al centro della gabbia, nel polveroso patio dei tronchi spezzati. Grattò il figlioletto sulla nuca, nella speranza di vederlo sbadigliare – uno di quei sbadigli suoi che sembravano durare un’eternità –, lo bagnò con un po’ d’acqua presa dallo stagno. Cercò di metterlo seduto, sollevandolo per le gracili braccia, mentre la luce del giorno gli si incuneava nella bocca, che era rimasta spalancata, congelata in quello sbadiglio che davvero sembrava non finire mai. Ora Claudio, il secondogenito di Gana, era solo Claudio-dal-cuore-malato, quello che gli uomini in camice bianco le avevano restituito con gli occhi inumiditi, senza farle capire come mai gliel’avevano portato via per tutto quel tempo. Provò a scuoterlo, questa volta più energicamente, e fu allora che la testolina del piccolo ricadde all’indietro, con un’espressione inane e terribile che lei non avrebbe mai dimenticato.

Sentì il silenzio sbalordito dei bambini lì fuori, che forse qualcosa avevano intuito, mentre gli occhi le tremavano e non le usciva dalla bocca altro che un brontolio sommesso. Sentì che non v’era respiro nella sua creatura, ma solo un alito stantio e amarognolo.

Stava accovacciata di fronte al suo piccolo, con le spalle imponenti curvate davanti a quella testolina piegata, chiedendosi come mai quel muscolo guasto avesse smesso di battere – davanti a lei che aveva fatto tutto come si deve, non aveva sbagliato nulla, né fatto mancare qualcosa alla sua creatura. Intanto gli occhi che la fissavano, aldilà del vetro. Occhi che si mossero a seguirla, quando Gana si drizzò in piedi, afferrò quel corpicino e se lo portò in un angolo che sembrava tranquillo, per scrollarlo da quel sonno di pietra. Sembravano anticipare morte e follia, quegli occhi moltiplicati per diecimila – con quella luce insopportabile, accecante! Così cullava il piccolo Claudio che non aveva più né sonno né fame né sete.

Gana gli chiuse la bocca con una mano. Voleva riempirsi il petto di aria e gridare. Restò stretta a suo figlio, in silenzio, mentre qualche signore, lì fuori, stava scattando foto con un cellulare.

Successe che gli altri gorilla si avvicinarono al suo giaciglio, scambiandosi un’occhiata ansiosa, vedendo la sua faccia devastata e i suoi occhi sbarrati. I veterani di quella gabbia sapevano bene, e se lo ripetevano sempre più spesso, che essere consapevoli della loro condizione non era più sufficiente a cambiare le cose. E ciò che sarebbe servito a cambiare le cose, il coraggio e la forza e la voglia, non poteva crescere né trovare spazio, in quella condizione. Si resero conto, tutti, di essere a volte spettatori, a volte parte di uno spettacolo che a seconda dei giorni poteva essere gradevole e divertente, oppure orrido e spietato; in ogni caso riusciva sempre a sovrastare ogni cenno di cambiamento, ogni segnale che volesse dire libertà: ed era già tanto se ancora avevano voglia di porsele, certe domande.

Mentre i giornalisti tedeschi, all’indomani di quell’avvenimento, riempirono pagine e pagine dibattendo sulle emozioni degli animali, e su come un gorilla dal dorso argentato potesse affrontare una perdita così grande, un grandissimo desiderio di fuggire era il solo sentimento che riempiva l’animo di Gana. Per la prima volta, da quando il suo mondo era quella gabbia di vetro, lo spettacolo nel quale si trovava a recitare le era apparso così potente, così lineare da essere immutabile.

2 commenti:

Samantha Abis ha detto...

Il tuo post è meraviglioso, grazie.
Ho messo il tuo link nel mio blog, spero non ti dispiaccia, Se vuoi venirmi a trovare sei la benvenuta!

Anonimo ha detto...

Commovente e minuzioso nella descrizione!!! Una storia che tocca l'animo con delicatezza e tenacia!!!


Elisabetta