ERA dal settembre del '45 che il mondo intero non era sintonizzato su un così grande entusiasmo, con la medesima onda emotiva, nella stessa spasmodica attesa. Una risposta doveva arrivare da oltreoceano, e mai come ora doveva essere soltanto una. Tre anni fa - lo ricordate?- l'intero pianeta si trovò ad essere as only one, come nella canzone di Lennon, ma per un funerale infinito, incollato al televisore a sentir parlare di probabili beatificazioni, di salme, di miracoli.
Questa volta l'attesa messianica è legata ad un uomo in carne ed ossa, cresciuto un po' qui e un po' là attraverso tre continenti, di padre kenyota e madre yankee, che per tutta la vita ha studiato, studiato, studiato e ora muove masse oceaniche come non se ne vedevano, forse, dai tempi di Kennedy. Una rockstar mulatta dall'oratoria incredibile, dalla magnifica e rassicurante presenza, che rappresenta un simbolo più che una concreta speranza, certo, ma è proprio così che si chiudono (o si aprono) i cicli storici.
L'America "imbolsita" dalla tv si ritrova a fare le code ai seggi come mai negli ultimi decenni, migliaia e migliaia di ragazzi -non fanatici!- si raccolgono al Grant Park di Chicago come per accogliere la rock star che ha venticinque anni in meno del suo contendente; che fino a qualche anno fa avrebbe potuto essere collega universitario dei loro genitori. E poi, le lacrime di Jesse Jackson, le feste scatenate in Kenya e in Indonesia (le altre "patrie succedanee" di Obama), i complimenti di Fidel Castro e di Hamas. Scene che Doisneu certamente avrebbe immortalato scegliendo baci affettuosi, commossi abbracci, mamme e bambini ai piedi di un palco, con gli occhi rigati di lacrime. I simboli contano, talvolta occorre viverli fino in fondo, e non capirne la portata non è realismo, ma patetico disincanto.
L'Europa che ancora si svena per le teste coronate/cornificate, che sembra esportare sopratutto deprimenti visioni del mondo isolazioniste e rinunciatarie, afflitta dal calzante invecchiamento e dal crescente disimpegno dei suoi cittadini, si ritrova già a chiedere al nuovo presidente di "non deluderla".
349 seggi contro 147. Vittoria larghissima negli stati di NY e California (62%), nella Florida di Jeb Bush, nell'Ohio di 80 cittadini su 100 dalla pelle bianca, addirittura plebiscitaria a Washington DC (93%). Percentuali così non si spiegano solo con i centinaia di milioni di dollari spesi dai Democratici per i magnifici spottoni mandati in onda ogni giorno. Ma poi li abbiamo visti davvero? (L'ultimo, quello di mezz'ora mandato in onda su tutte le reti due giorni fal, è un capolavoro stilistico e contenutistico, più simile al caldo neorealismo di Paul Haggis, Eastwood e Sean Penn che alla solita propaganda kitsch-patriottica statunitense.)
Chi ancora pensa che i simboli, le suggestioni e le emozioni non contino quanto le motivazioni economiche, le pressioni delle multinazionali e delle paure, rifletta - ancora una volta - sul destino di quel nome. Barack, che in arabo vuol dire "benedetto" (ma solo in arabo). Hussein, come il dittatore la cui impiccagione è stata pagata con la morte di centinaia di migliaia di innocenti. Infine, Obama: tremendamente, audacemente assonante - solo una lettera di differenza! - da piromane degli anni Zero, da quell'Osama che un elettore medio in Wyoming o in Idaho probabilmente ancora pensa si nasconda tra le catapecchie irachene o palestinesi.
Barack. Hussein. Obama. Di padre kenyota islamico e madre yankee. Cresciuto in tre continenti. Dalla pelle mulatta. E' in questo straordinario valore simbolico - e non solo nella fenomenale strategia comunicativa del "Our Moment is Now" - che si sono svolte le elezioni americane, calando la notte sull'11 settembre e facendo risvegliare il mondo nel nuovo decennio.
1 commento:
"I simboli contano, talvolta occorre viverli fino in fondo, e non capirne la portata non è realismo, ma patetico disincanto."
E' proprio questo che mi ha impressionato molto in questi giorni e in queste ore.La pregnanza dei simboli oltreoceanici. Immersi in un contesto in cui lo spazio e il tempo non sono assumibili come punti di riferimento stabili,comunicati attraverso i canali mass-mediatici,nuovi veri aedi dell'epopea nazionale di un paese come gli USA, tutta questa simbologia obamiana sembra investita di valori collettivi e di partecipazione unilaterale,che non si sa dove porterà.L'America che è stata demonizzata a lungo,trova ora un modo di esprimersi attraverso simboli nuovi ma legati ad una tradizione di vecchi miti e grandi indimenticabili discorsi. Per questo trovo affascinante ciò che sta avvenendo e ciò che si prospetta per il prossimo decennio:una rivisitazione del passato in chiave futuristica,un sogno americano applicato ai nostri tempi,un futuro che non fa paura perchè è ispirato dal passato in una concentrazione di forze unilaterali nel presente.Un decennio di lavoro e di progetti.Un decennio ponte.Gli anni '10...
Posta un commento