“... Mi aggrappai al tavolino, accesi una sigaretta con mani che tremavano. Forse non ero innamorata di te, o non volevo esserlo, forse non ero gelosa di te, o non volevo esserlo, forse m’ero detta un mucchio di verità e menzogne ma una cosa era certa: ti amavo come non avevo mai amato una creatura al mondo, come non avrei mai amato nessuno. Una volta avevo scritto che l’amore non esiste e se esiste è un imbroglio: che significa amare? Significava ciò che ora provavo a immaginarti impietrito, perdio, con lo sguardo di un cane preso a calci perché ha fatto pipì sul tappeto, perdio! Ti amavo, perdio. Ti amavo al punto di non poter sopportare l’idea di ferirti, pur essendo ferita, di tradirti pur essendo tradita, e amandoti amavo i tuoi difetti, le tue colpe, i tuoi errori, le tue bugie, le tue bruttezze, le tue miserie, le tue volgarità, le tue contraddizioni, il tuo corpo con le sue spalle troppo tonde, le sue braccia troppo corte, le sue mani troppo tozze, le sue unghie strappate. [...] E forse il tuo carattere non mi piaceva, né il tuo modo di comportarti, però ti amavo di un amore più forte del desiderio, più cieco della gelosia: a tal punto implacabile, a tal punto inguaribile, che ormai non potevo più concepire la vita senza di te. [...] E l’amore esisteva, non era un imbroglio, era piuttosto una malattia, e di tale malattia potevo elencare tutti i segni, i fenomeni. [...] Gettai via la sigaretta con rabbia. Ma un amore simile non era neanche una malattia, era un cancro! Un cancro. Come un cancro che a poco a poco invade gli organi col suo moltiplicarsi di cellule, il suo plasma vischioso di male, e più cresce più divieni cosciente del fatto che nessuna medicina può arrestarlo, nessun intervento chirurgico può asportarlo, forse sarebbe stato possibile quand’era un granellino di sabbia, un chicco di riso, una voce che grida egò s’agapò, un amplesso mentre il vento fruscia tra i rami d’olivo, ora invece non è possibile perché ti ruba ogni organo, ogni tessuto, ti divora al punto che non sei più te stessa.[...] V’è una caratteristica lugubre negli ammalati di cancro: appena capiscono che esso ha vinto o sta per vincere, cessano di opporgli i farmaci, il bisturi, la volontà e si lasciano uccidere con sottomissione, senza maledirlo, neanche rimproverarlo del martirio che esige. [...] ...così il cancro aveva proseguito il suo corso per dimostrarmi che amare significa soffrire, che l’unico modo per non soffrire è non amare, che nei casi in cui non puoi fare a meno di amare sei destinato a soccombere. In altre parole il mio problema era insolubile, la mia sopravvivenza impossibile, e la fuga non serviva a nulla. A nulla? Alzai la testa. A qualcosa serviva: salvare la mia dignità.”
- O. Fallaci, Un uomo (1979).
5 commenti:
Chapeau!
R.
perdio..
ah! paolo t'ho sognato stanotte...ero a tornino dalla fra e ho fatto un sogno strano. c'era lacerba tabaccaio sigarette negate treni linguine gamberi e vongole libro illustrato di scarpe di donna con pagine incollate e tu che vincevi un concorso per una galleria immaginaria e fregavi tutti pigliavi un sacco di soldi e partivi..
comincio a pensare che i kebab a torino siano deliziosamente allucinogeni.
bisous
hauhuHu Gaia che ridere! Mi ricordo ancora quando me lo hai raccontato stamattina!!!
Comunque il pezzo è bellissimo... e cazzo l'ho provata una volta sola questa roba ed è devastante!
eh si gaia..sono senza parole..dev'essere un effetto del kebab..!:)
il brano l'ho tagliato, ma è uno dei più belli scritti dalla fallaci..
suggestivo poi il richiamo al "cancro", che colpirà - per uno scherzo del destino - la scrittrice, vent'anni più tardi...
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