lunedì 21 settembre 2009

Per una ontologia dell’esilio.

di

Vera Linhartová

(pubblicato su Sud n°O)


Per venticinque anni, finché la questione sembrava d’attualità, mi sono sempre astenuta dall’affrontare l’argomento dell’ « esilio ». Non soltanto mi pareva secondario rispetto alla mia situazione, ma per di più ero da sempre convinta che si trattasse di una nozione inadeguata e superata. La mia convinzione è del resto immutata. Se, nonostante tutto, ho accettato di riflettere oggi sulla questione, è innanzitutto perché presumo che, nella sfera del pensiero umano, non ci siano argomenti proibiti; ma, sopra ogni altra cosa, perché considero che una messa a fuoco del tema potrebbe ritornare utile. A mio avviso si sviluppano interpretazioni del termine troppo spesso facendosi prendere dal sentimento o dalla passione, rinunciando invece ad analizzarlo in modo critico. Diciamo, tanto per cominciare, che la nozione d’esilio non ha senso che in certe società sedentarie, visto che non avrebbe alcuna ragione d’essere presso i nomadi. Ed anche se, ai nostri giorni, la maggior parte delle nostre società appartiene alla prima categoria, all’interno di queste stesse società, accanto alle persone che restano attaccate tutta la loro vita ad un solo ed unico luogo, non riuscendo nemmeno a concepire che ce ne potrebbe essere uno diverso, esistono altri individui che preferiscono lasciare la relativa sicurezza di un luogo immutabile per percorrere il mondo o più semplicemente per trasportare i loro penati altrove.La stessa antica distinzione tra sedentari e nomadi non è per niente abolita, ma ha semplicemente assunto forme differenti, per cui, invece di applicarsi a comunità intere, diventa la scelta di singoli individui. Prima d’ogni altra cosa si tratta dunque di un’opzione essenzialmente personale che in seguito determina tutto un modo di vivere. Un nomade cambia luogo su questa terra senza preoccuparsi degli usi e delle convenienze, perché la scelta dei luoghi è per lui una questione di preferenze e di necessità intima, non di obbligo. Va da sé che le mie simpatie vanno a questi uccelli migratori. Eppure, tale modo di vita è contrario all’interesse generale delle comunità stabilite.Che vuol dire la parola « esilio » ? D’origine latina, exilium significa letteralmente « fuori di qui », « fuori da questo luogo ». Implica dunque l’idea di un luogo privilegiato tra tutti, d’un luogo ideale e senza pari. Nella Grecia antica, questo luogo ideale era rappresentato dalla polis e, presso i romani, dall’urbs, o dalla civitas: la società organizzata, più che un luogo geografico, rappresentava un valore supremo al quale ogni individuo, nel suo proprio interesse, doveva restare legato tutta la vita. Ed è proprio in tali società che l’esilio era considerato come un castigo particolarmente severo. Essere banditi dalla comunità, perdere il diritto alla protezione che essa assicurava ai cittadini – o ai sudditi- in cambio dell’obbedienza alle sue leggi, perdere il luogo familiare per essere consegnati all’ignoto: in questo doveva consistere la tragedia degli esuli.

Conformemente a questa prima accezione, l’esilio è rimasto un castigo, uno strumento di repressione, lungo tutta la storia dell’Europa, fino all’epoca moderna. Paradossalmente- e il fatto è assai recente- questa antica misura di punizione ha finito col diventare un crimine. Il ribaltamento di visione è sopravvenuto nel momento in cui l’esilio, da forzato, è divenuto volontario. Sotto ogni dittatura o presso altri regimi totalitari, l’individuo è considerato come proprietà dello stato, e, tra le numerose altre costrizioni cui soggiace, non ha alcun diritto di decidere in quale paese abbia intenzione di vivere. Lasciare il territorio nazionale volontariamente, e senza l’approvazione delle autorità, è dunque assimilato ad un atto d’ostilità dichiarato. Misure punitive sono adottate all’indirizzo di quei disertori che sono gli esuli volontari. E poiché il castigo dell’essere banditi ha perso ogni efficacia, queste misure consistono nella condanna in contumacia alla prigionia, alla perdita della nazionalità e dei diritti civili, e alla confisca dei beni personali. Fa seguito anche l’impossibilità a rientrare un giorno nel paese che si è lasciato, perché per questo tipo di crimini non è prevista la prescrizione.
Ciò che semplicemente cerco sin dall’inizio di dire è che, a mio avviso, il termine “esilio” non è che una comoda etichetta che si attribuisce, in modo superficiale e indistinto, a tutto un insieme di situazioni e comportamenti diversi.

In realtà, la parola si riferisce a fenomeni differenti. Abbiamo già visto come una distinzione d’ordine storico debba essere fatta tra esilio forzato ed esilio volontario. A sua volta, l’esilio volontario può essere concepito in due modi differenti. Nel primo, esso verrà concepito come una fuga davanti alle avversità e ad una minaccia immediata, per cui sarà allora vissuto come un tempo sospeso, provvisorio, in attesa di un ritorno improbabile verso il luogo ed il tempo prima della rottura. Nel secondo, come un punto di partenza verso un “altrove” incognito, per definizione aperto ad ogni possibilità; e, in questa ottica, si svolgerà in un tempo pieno, come un inizio senza scopo definito, e soprattutto senza la speranza speciosa del ritorno. Ora, è evidente che rispetto a questa seconda opzione il termine stesso, ”esilio”, diventa particolarmente inappropriato, dal momento che colui che è partito senza rimpianti e senza il desiderio di ritornare sui propri passi considera il luogo che ha appena lasciato ben meno importante di quello in cui arriverà. Non vivrà più ormai “fuori da questo luogo”, ma s’impegnerà sulla strada che porta a un “senza luogo”, verso quell’altrove che rimane per sempre al di fuori di ogni attesa. Proprio come il nomade, lui sarà “a casa sua” dovunque metterà piede.
Nel quadro di determinate istituzioni, nel mezzo di circostanze socio-politiche tutto sommato esterne, l’esilio volontario è sempre un grido di rivolta. Eppure questo grido risuona una sola volta, nello spazio di un istante, nel momento stesso in cui la decisione è presa: è un no senza condizioni e irrevocabile. Non lo si può né prolungare, né ripetere, perché è stato lanciato una volta per tutte. Eppure, ci è impossibile vivere nella negazione pura. Inoltre, la vita concreta di un essere umano non si svolge nei limiti di un certo quadro istituzionale e di determinate circostanze socio-politiche. La vita è un affare privato. Una volta definita la nostra posizione di principio davanti alle circostanze che ci condizionano e che non abbiamo scelto, ci restano da fare molte altre cose. Siamo allora di fronte ad un nuovo bivio, dove una strada conduce all’esilio subÌto, l’altra verso l’esilio trasfigurato.

Per quanto concerne l’esilio subÌto, la sua principale caratteristica consiste nell’aspettativa che il tempo sospeso abbia fine e nella speranza di ritrovare lo status quo precedente, immutato. Eppure, l’esilio liberamente scelto è un’occasione straordinaria, che bisogna cogliere al volo, di cui approfittare senza tergiversare. Sono sempre stata convinta del fatto che nella vita di un uomo il dovere verso la terra di appartenenza o verso i legami di sangue non sia un fattore determinante. La mia prima sensazione in seguito alla partenza è stata quella di una grande leggerezza, di una non-appartenenza a quale che fosse la comunità, a quale che fosse il paese. Avevo il sentimento, o piuttosto la certezza, che da quel momento in avanti quello che avrei fatto e quello che sarei stata non sarebbe dipeso da altri che da me. Una morte e una resurrezione. L’esercizio quotidiano della libertà è una cosa rischiosa. Doppiamente rischiosa per chi viene da un paese dove tutto ciò che non è imposto è proibito. In un mondo disseminato di divieti, l’ orientazione è facile, perché resta poco spazio per le decisioni individuali, poche fessure in cui aprirsi un cammino verso la luce. L’eccesso di libertà, si sa, può essere fatale per soggetti a lungo abituati a un’oppressione costante, ma può anche essere salutare. Non sarebbe esatto dire che una delle prime lezioni che ho potuto trarre dalla mia nuova situazione è stata la modestia. Certo, sono divenuta modesta, ma non era che la conseguenza di una scoperta ben più essenziale: quella della relatività delle cose, di quanto queste siano poco importanti. E’ facile acquisire la notorietà in un paese che, preso nella sua totalità, conta tanti abitanti quanti quelli di una metropoli di un altro paese. E’ facile farsi passare per uno scrittore in una città dove gli scrittori si contano nel numero di una qualche decina e sono, di fatto, costantemente esposti, ben visibili sulla scena pubblica. E che non mi si fraintenda: non si tratta qui di una giudizio di valore verso grandi e piccoli paesi. Quel che mi preme è un cambiamento radicale di prospettiva, come è stato espresso prima di me in questi termini: “ preferisco essere un pesce minuscolo nell’oceano, piuttosto che una grossa carpa in uno stagno”

Ho dunque scelto il luogo dove volevo vivere, ma ho anche scelto la lingua che volevo parlare. Spesso si ha la pretesa che, più di ogni altro, lo scrittore non sia libero nei suoi movimenti, perché resta legato alla sua lingua in un vincolo indissolubile. Credo che si tratti ancora di uno di quei miti che servono da scusa alla gente timorata, li riconforta a vivere una vita di cui, alla fine, a scanso di ogni difficoltà, si sono accontentati. Qui mi si opporrà senza dubbio una qualsivoglia idea preconcetta sulla responsabilità dello scrittore rispetto al proprio paese. Ora, a mio avviso, nessun popolo, né alcun paese al mondo costituisce una comunità unica, isolata dalle altre. Nessuna di esse merita che le si sacrifichi la propria vocazione, perché ci sono cose che nessuno farà o dirà al posto mio. Quale che sia il luogo dove agirò, quale che sia la lingua che adotterò per parlare, il beneficio per la comunità umana è lo stesso. Lo scrittore non è prigioniero di una sola lingua. Perché, prima di essere scrittore, è innanzitutto un uomo libero, e l’obbligo di preservare la sua indipendenza contro ogni ostacolo passa sopra ogni altra considerazione. E non parlo qui di quelle difficoltà insensate che un potere abusivo cerca di imporre, ma di restrizioni tanto più difficili da superare in quanto intenzionali e in quanto richiamano al sentimento del dovere e della lealtà verso il paese di origine

Come ho detto all’inizio di questo mio intervento, le mie simpatie vanno ai nomadi: non mi sento nell’anima un sedentario. Sono allora in diritto di dire che il mio esilio è venuto a colmare quello che, da sempre, era il mio augurio più caro: vivere altrove. La mia decisione era stata presa molto prima della mia partenza, ed il concorso di particolari circostanze- che non qualificherei come felici o infelici, ma strettamente neutre- non ha fatto altro che indirizzarmi lungo una strada che, anche in altre circostanze, avrei preso ugualmente.Sono da sempre convinta che un destino individuale compiuto coinvolge l’umanità tutta intera. E credo anche che la nostra aspirazione alla pienezza, quale che sia la maniera in cui questa si realizzi, non saprà accontentarsi di un ritorno sui propri passi. In questa ottica, la questione del luogo in cui abbiamo scelto di vivere è – e non c’è da dubitarne – trascurabile. Andro’ più lontano. Per chi è partito per i sentieri sinuosi di un pellegrinaggio senza fine, la questione dell’esilio è priva di senso, perché qualsiasi cosa accada, egli vive in un “ non luogo” che è un perpetuo punto di partenza aperto in tutte le direzioni.

Discorso pronunciato al convegno “ Parigi-Praga, intellettuali in Europa, 10 dicembre 1993

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