lunedì 30 novembre 2009

Intellettuali.



"Il mondo più comodo per i giganti multinazionali è un mondo popolato di staterelli nani o un mondo del tutto privo di stati."
- Eric J. Hobsbawn, 1993


Come mai gli intellettuali sono così simili ai loro committenti? E perché sono ridotti ad essere un’appendice strumentale delle multinazionali, delle creative industries, di questa o quella istituzione, intrattenitori delle masse teleguidate dal “principe”, educatori senza interesse per gli educandi, ricercatori senza spazio per la ricerca, che cercano solo di accontentare chi li paga (magari inserendo di nascosto qualche slogan rivoluzionario tra le righe di codice html)?
Innanzitutto è il mercato che li vuole così: la competizione tra cervelli ha reso l’opera culturale poco redditizia: c’è sempre qualcun altro più sveglio e più affamato pronto a sostituirti con un’idea migliore. Le buone idee, del resto, sono appannaggio di sempre più persone, e trovare qualcosa di davvero innovativo è dannatamente complicato. Non a caso ormai si sente pronunciare la parola genio un po' ovunque, e si scopre magari che si sta parlando di un cantante rock vestito a tavolino o di un compositore furbetto che spaccia la sua balbuzie per timidezza.
Le corporations, dal canto loro, con intelligenza e lungimiranza hanno creato spazi imbottiti di ex-ribelli (stanchi di fare stage sottopagati), aggiungendo così al brand qualcosa di davvero grottesco: la componente anarchica, urban, green, e così via, a seconda delle mode e delle stagioni. Termini come riot, uprising, street, anarchy e awareness compaiono più nel linguaggio aziendale e dello spettacolo che in quello della vita quotidiana. Uno sfogo masturbatorio della rivolta. Ma autenticità, poca.
Che la classe intellettuale condivida con quella dirigente una visione pressoché identica del mondo, della società e dei meccanismi per blandirla, sfruttarla, soggiogarla, è un dato di fatto. Quasi naturale, antropologico. Più straziante ancora è però il modo in cui gli intellettuali abbiano copiato dalle vecchie forme d'esercizio del potere tratti di arroganza, superbia, intoccabilità; e la tentazione di correre sempre da soli, o in minoranze egoistiche del tutto scollegate dal resto. Convincere il cittadino-cliente della sua "unicità" non a caso è uno dei leit-motiv delle pubblicità. Eccentricità rispetto alle altre minoranze resistenti, ma concentricità verso il grande capitale: questo il sogno dei poteri forti. La classe intellettuale come un'arcipelago di paradisi off-shore: piccolissimi, indipendenti e buoni per far fruttare gli investimenti. Divide et impera, e non è mai stato così vero.
Il concetto, pure ipocrita, di “modificare il capitalismo dall’interno” è stato definitivamente superato: più semplicemente, hanno soprattutto accettato, i migliori, quelli non del tutto riconciliati con l’esistente, di separare con serenità il pensiero dall’azione. In nome della borghesissima pace dei sensi. E di opporsi alle richieste dei poteri politici, economici e mediatici solo con modi rigorosamente aristocratici. Dalle nicchie di benessere ritrovato. Sparando a zero su quelli che ancora, in nome delle maledette ideologie, si ostinano a far politica per strada e non da una scrivania, e ritagliano cartelloni, e partecipano a convegni con gente qualunque e continuano a ripetere quelle due paroline: non accetto. È per questo tradimento, per questa incapacità di essere umili, a portare pazienza, a lasciar che ciò che non è inferno cresca (è alla base poi di ogni opposizione radicale, sia essa di ispirazione non violenta, buddhista o anche cristiana), che gli intellettuali contano così poco, e non sono più una categoria di riferimento se non per se stessi. E come imbonitori delle novità del mercato.

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