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Da Lo Straniero n°92, febbraio 2008.
Ai tempi del G8 di Genova ci si svegliava la notte con una telefonata. Ci si vestiva in fretta per accedere la tv, ascoltare con eccitazione il bilancio di feriti e di devastazione, sapendo che in quel marasma c’erano finiti diversi tuoi amici, compagni di liceo, gente normale che aveva deciso di seguire il flusso e d’improvviso non si sapeva più che fine avesse fatto. Si era molto giovani, forse, ancora non propriamente adulti. Però sapevi che l’interesse della tua generazione, o almeno di una sua parte era lì, doveva essere lì: tra la folla, i manifestanti, in quella diretta tv tragica e palpitante. Adesso non succede nulla di tutto questo. Il silenzio su una democrazia che muore soffocata tra i rifiuti è interrotto solo da sbrigative email di conforto, qualche sms grottesco che ti arriva sul cellulare, o peggio striminzite frasi scritte nei programmi di comunicazione istantanea, tipo Messenger o Skype: i tuoi amici, e per estensione, quindi, tutto il resto del mondo, sbrigano la faccenda cambiando il loro status da «passivo» ad «attivo» semplicemente cliccando su un tasto del pc: ulteriori approfondimenti possono turbare, non sono graditi.
Il telefono ha taciuto fino ad oggi, giorno dell’Epifania Duemilaeotto. Oggi il telefono ha squillato perché un paio di reporter stranieri hanno ben pensato di contattarmi come «persona informata sui fatti» circa la crisi della spazzatura a Napoli. Quella domanda: «Ma è possibile che sia tutto vero?», sa di sbalordimento vero, ed è giusto che io li aiuti a portare avanti la più efficace forma di solidarietà che possa esistere: quella dello scambio di informazioni. Il pretesto è pronto: c’è una manifestazione di protesta, nella zona periferica di Pianura, contro la riapertura della discarica: perché non andarci? Martin Zoeller, ventotto anni, è un giornalista tedesco inviato in Campania dal Die Welt di Berlino. Della crisi dei rifiuti non sa nulla, il suo direttore gli ha solo detto: «Da quelle parti si vedono scene da guerriglia, gente che si fa manganellare tra montagne di spazzatura alte quasi dieci metri. Vedi di fare qualche foto carina, qualche intervista e cerca di non farti ammazzare.» Abbiamo appuntamento davanti la Stazione Centrale. Noto che Martin guida la macchina con il cappuccio del giubbotto tirato su, e non se lo abbassa nemmeno una volta, mentre viaggiavamo verso Pianura. L’inferno ha l’odore acre che tutti ci aspettavamo, e aumento mano a mano che ci avviciniamo. Il mio compito è di avvistare in tempo i grossi ostacoli lungo la strada: cassonetti rovesciati, pezzi di porfido, parafanghi, transenne. Qualche istante mi volto a fissare Martin: non capisco il senso di quel cappuccio, non fa mica freddo. Il nostro percorso è una gimkana tra i rifiuti, e in un momento di mia distrazione per poco non becchiamo in pieno un panettone di cemento che, divelto, è spuntato dietro la curva e quasi ci sfonda la macchina. Martin impreca nella sua lingua, il cappuccio viene giù: ha capelli biondissimi e ricci, chiari quasi quanto la sua pelle. Mi spiega senza esitazioni che ha paura di essere riconosciuto come «straniero»; e dunque pestato, insultato, probabilmente mangiato, dai nativi.
Poi c’è Irene, è una giornalista freelance italo-argentina che vive a Roma da diversi anni, come Martin, e scrive per importanti periodici come Reforma e l’Economista, diffusi in tutto il Latinoamerica. Poco dopo essere scesa dal treno, nei pressi di Corso Umberto I, già aveva iniziato a scattare foto a ripetizione. Le vorrei dire che quello è ancora nulla. Irene mi ripete che crisi simili si sono verificati in Canada, in Grecia, in Francia, neanche troppi anni fa. Ma si trattava quasi sempre di scioperi di netturbini e mai si è arrivati, altrove nel mondo civile, ad un’emergenza periodica per quattordici anni. Dunque Irene non aveva ancora idea di cosa fossero migliaia di tonnellate di rifiuti abbandonati in strada, lasciati lì a marcire per settimane, mesi. Ora che siamo arrivati, non fa che ripetermi: «Come è possibile? Non può essere vero».
Alla rotonda Rosolillo, grottescamente chiamata «l'étoile» dai residenti, ora presidiata da un mezzo migliaio di persone, posteggiamo la macchina e iniziato a fare qualche intervista. Sono quasi tutte donne, vecchi e bambini. Gli unici ragazzi tra i quindici e i trent'anni scorazzano con facce torve sui motorini, o che si appollaiano su un lato della strada, vestiti di nero e con la visiera del cappellino calata sugli occhi, come avvoltoi che scrutano la massa di carogne. Come passano due camionette della polizia, all'unisono quei ragazzi iniziano a scagliare sassi, inveire con frasi irriferibili, insulti tremendi. Per qualche attimo temo che dalla gragnola di pietre possa scoppiare, subito, la nuova carica delle forze dell'ordine. Invece tutto si calma con lo scomparire dei veicoli. La fidanzate si complimentano con i loro ragazzi e poi, caracollando sui tacchi tra copertoni squarciati e capitoni spappolati (sì, c'erano anche quelli) vanno a casa. Ma chi sono questi ragazzi in bomber nero, dall’aspetto sinistro? Tra i manifestanti lo sanno tutti che ci sono infiltrati: è l’unica cosa certa in questi giorni. Però nessuno sa bene come valutarla, la presenza dei tifosi ultraviolenti: alcuni sostengono che possano servire a catturare l’attenzione dei media –come i black block al G8 di Genova hanno insegnato- altri invece suggeriscono l’isolamento dei teppisti a qualunque costo. In ogni caso non sarà facile venirne a capo, finché dura l’emergenza. Le Teste Matte sono uno dei gruppi predominanti della «curva A» dello stadio San Paolo. Insieme ai Mastiffs hanno ridimensionato e poi praticamente scacciato gruppi storici –e più mansueti- come i «Vecchi Lions» o i «Fedayn». Se lo stadio è il loro tempio naturale, la loro presenza qui non è una «trasferta» straordinaria, come hanno scritto alcuni: durante i giorni di relativa calma, il loro radicamento a Pianura è palesato dai graffiti che hanno lasciato in giro: solo nei Quartieri Spagnoli se ne trovano di più. La funzione di questi segni è ben precisa: stencil di vernice curatissimi nella forma, di chi non ha fretta né paura, servono a delimitare lo spazio d’influenza, «marcare» il territorio, come i liquidi odorosi dei i cani e dei gatti. Di fronte alle troupes della Rai che si interessano a loro quando si bruciano sacchetti e copertoni, reagiscono scagliando pietre e facendo roteare le spranghe: ma basta più semplicemente, stimolarne la vanità per calmarli. Appena capiscono, anche solo per un attimo, di poter finire sulle televisioni straniere, anche i più facinorosi si rabboniscono e si fermano a parlare, per decantarti la loro storia, per mostrarti i loro simboli, i tatuaggi, i trofei di guerra ovvero i rimasugli della battaglia appena conclusa: un casco di poliziotto, uno specchietto retrovisore di autoblindo. Questi ragazzi conoscono Youtube più di quanto conoscano il motivo per cui sono lì. La loro inquietante modernità, in un certo senso, è la prova della mutazione del tifo partenopeo negli ultimi anni.
Sopraggiunge un altro notissimo capo ultrà, conosciuto come «Genny la Carogna», un habitué della centrale Piazza Bellini, appartenente agli alleati Mastiffs, e i ragazzini come gli adulti salutano sventolando non sciarpe azzurre, ma cinture di cuoio: quelle che si sfilano dai pantaloni e che fanno schioccare in aria, in segno di sfida. È il momento della nuova partita. Le camionette della polizia si fanno avanti per un nuovo ordine di sfondamento. I fotografi si mettono ai bordi della scena per poter meglio inquadrare l’impatto, di profilo. Gli ultras intonano il loro canto di sfida: «uccideteci». I vigili del fuoco accorsi a spegnere i vari incendi vengono trattati come i tifosi ospiti al San Paolo: affiancati da mezzi con vetri blindati, scortati dai celerini che li conducono all’arena. Una volta davanti alla discarica vengono rinchiusi in una barriera di scudi alzati al cielo, una sorta di testuggine di plexiglas, a proteggerli dal lancio di oggetti. I cori, le urla, le coreografie che si esibiscono e che sopraffanno il corteo pacifico sono il preludio di ciò che avverrà dopo: lo scontro fisico. Evocato, agognato, sognato.
È un continuo avanzare e indietreggiare, che va avanti per mezz’ora. Dopodiché si conclude l’ennesima battaglia campale, e le radioline riprendono a funzionare. La tensione è appena calata e non c’è spazio per i grandi dibattiti: una signora inizia a imprecare contro le cariche della polizia, contro il manganello facile: «Qua l'unica soluzione è mandare a casa gli uomini. Gli uomini non servono a niente! Le donne ci vogliono, donne con in braccio i propri bambini. Voglio vedere se ci colpirebbero lo stesso». Una mamma esibisce la sua bambina, che tiene in mano un cartello con su scritto: «Avete tolto il sorriso ai napoletani». Gente infreddolita più che inferocita, sorride allo spuntare della macchina fotografica, si fa ritrarre con sciarpe e berretti di lana. Pugni in tasca per il gelo e non per la rabbia. Appena qualcuno alza la voce, tutti tutte le altre facce si voltano e lo ascoltano in silenzio, soggiogate dai comizi improvvisati. In quel momento capisco che, per ciascuno, la propria vicenda sta smettendo di apparire casuale e disperata, ma sta prendendo un suo senso.
Dovunque s’incontrano persone che non vedono l’ora di raccontarti la storia di questo martoriato rione: per esempio, le speculazioni degli anni Sessanta con il successo delle colossali acciaierie Italsider, da lì poco lontane. Gli investimenti senza scrupoli di politici-costruttori. La popolazione decuplicata in quarant’anni, fino ai centomila abitanti dell’inizio degli anni Novanta. E in mezzo il terremoto, con i villaggi degli sfollati costruiti proprio lì: segna l’inizio di un lungo declino che non si è ma arrestato. Per giungere ai giorni nostri, con percentuali di malformazioni alla nascita, malattie respiratorie e probabilità di sviluppare un tumore mortale inferiori solo ai dati di Chernobyl. Dieci anni fa la chiusura della discarica, le promesse, il campo da golf…i campi da golf.
Ma questa volta le bugie e le incapacità, lo scandalo e il ribrezzo non si fermano ai confini locali, né a quelli nazionali: fanno il giro del mondo. L’onda lunga della monnezza arriva persino in Sudafrica, sul sito del periodico Iol, e in inglese l'effetto è ancora più sconcertante: i sei milioni di cittadini campani rappresentano una «community that is suffocating in its own excrement», che soffoca nei propri escrementi. In Austria il Kurier di Vienna affida ad una foto e ad una piccola didascalia la news: si vedono chili e chili di spazzatura che fungono praticamente da guardrail per la carreggiata, e un signore che gira in bicicletta costeggiando il pattume. La agenzia Adnkronos International, letta da milioni di persone ogni giorno, rilancia il monito europeo all'Italia sull'emergenza. Per qualche ora siamo la seconda notizia sul sito di Al-Jazeera, dopo i risultati delle primarie americane. Sotto certi titoloni fanno bello sfoggio immagini apocalittiche: autobus dati alle fiamme, poliziotti sotto shock, manifestanti manganellati, vigili del fuoco esausti e anneriti che sembrano usciti da Ground Zero, sagome in controluce che attraversano strade infuocate. Sono le immagini che tanto piacciono ai lettori stranieri e forse anche italiani, quelle che Martin e Irene cercano di catturare quasi disperatamente.
Il blob maleodorante che si prepara a invadere ogni angolo di città ha ormai proporzioni epiche, i contorni della leggenda: un altro fotografo giunto da Milano si riferisce alle montagne di ecoballe accumulate a Taverna del Re (involontariamente mitico anche il nome) chiamandole «piramidi azteche», per la loro forma grottescamente squadrata e compatta: «Dove posso vedere le piramidi? Mi ci accompagni?», e dietro di lui Martin e Irene già si prenotavano. C’è sicuramente un’estetica della tragedia, un «tremendismo» anche nella rappresentazione grafica dei disastri. Del resto non è colpa loro, dei reporter: nella Rete le fotografie di Napoli sommersa dai rifiuti sono così numerose, così variegate che non ci si può accontentare di un ritratto banale: occorre soffermarsi sul «particolare», trovarci qualcosa di originale. Occorre l’intuizione. E quindi ecco che chiamano la bambina col cartello, per farla posare di fronte alla montagna di sacchetti. Dietro, la lavatrice e il frigorifero abbandonati. Poco distante il capitone spiaccicato per terra. Sempre oggi, un giornalista inviato dal Tg3 Campania nell'inferno di Pianura, alle due del pomeriggio -cioè quando la maggior parte dei napoletani è ancora seduta a tavola-, ha pensato bene di cominciare il servizio parlando attraverso la cortina fumogena emanata da un tappeto di rifiuti che erano appena stati spenti dai Vigili del fuoco: un cumulo nero e puzzolente, tanto esteso da costringere le automobili -quelle che si vedevano sullo sfondo- a circolare con passo d'uomo. L'effetto visivo sconvolgente era assicurato. La cronaca feconda persino nuovi modi di dire («Teso', vado a scendere a’ munnezz», «Aspetta, che mo' saglie 'ess!»), tutti puntualmente appuntati dai forestieri tra le note «di colore». A dimostrazione, secondo alcuni, di come la cultura urbana partenopea si ravvivi e dia il suo meglio (e il suo peggio) nello schifo. Ma è, anche, un sadico infierire su quanti hanno visto finora soltanto il peggio, nello schifo. È una frenesia documentaristica, sensazionalistica, che ha poco a che fare con la partecipazione. Il giornalista del Tg3, eccitato dall'idea di fare -per un giorno- il corrispondente di guerra, aveva capito tutto, e si era sintonizzato su questa linea d’onda per meglio arrivare lo schifo sulla tavola degli italiani.
La verità è che, spesso, in situazioni di emergenza l’adrenalina dei benestanti aumenta, perché l’imprevisto combatte la noia, anche involontariamente. Ricordo mia madre quando, tornata dal lavoro e, lasciando la spesa davanti l'ingresso, subito aveva acceso la tv: «Adesso arriva l'esercito, arriva l’esercito!». Era stato qualche giorno fa, la notizia era falsa, poi è stata confermata, poi non si è capito bene: insomma nessuno era sicuro. Certamente in altri contesti e in altre epoche avrebbe misurato bene le parole, prima di mettere allarme in casa. Però poteva –inconsciamente- farsi carico di quel rischio, perché sapeva che nessuno di noi si sarebbe precipitato davanti alla tv, con lei, per così poco. Forse era solo mia nonna l’unica davvero preoccupata. L’esercito le faceva venire in mente ricordi angoscianti: mitra spianati, coprifuoco, scorte alimentari.
Come zanzare impazzite, Martin e Irene saltano dalla testa alla coda del corteo, e poi il contrario, per intervistare il leader politico, il prete, la donna con figli, quello che ha avuto almeno quattro morti in famiglia per le esalazioni tossiche. Io mi preoccupo di tradurre, di spiegare, di fare da intermediario tra la «voce del popolo», come la chiama una spudorata consigliera comunale di Rifondazione, e gli sbigottiti reporter stranieri; ma già dopo qualche ora non ce n'e più bisogno: Martin non indossa più il suo copricapo, non nasconde più i suoi riccioli biondi. Come lo avvistano, macchia color avorio in un fiume di volti lividi e incupiti, i manifestanti lo chiamano, lo tirano per un braccio e poi gli gridano: «Tu questo lo devi raccontare. Devi raccontare che qui non siamo animali. Che qui la gente non passa il tempo ad incendiare monnezza, che non ci siamo rassegnati a vivere nei nostri escrementi. Lo devi raccontare, altrimenti...»
Martin mi racconta di come, durante l’alluvione di Firenze nel ’66, suo padre fosse quasi scappato di casa pur di aiutare i libri e i monumenti in pericolo; e di come in quell’occasione avesse incontrato, tra le macerie, non solo l’amore per l’Italia, ma anche la sua futura compagna e sposa: una ragazza tedesca dagli occhi verdi che spalava il fango insieme a lui. «Come mai non c’è nulla di simile, oggi?», mi chiede con il consueto candore. Lo ricordavo bene quell’episodio -l’arrivo degli «angeli del fango» nella Firenze allagata-, raccontato con straordinaria efficacia ne La meglio gioventù, e che avrebbe segnato, secondo alcuni, anche i prodromi del '68. Non so dove si nascondano gli angeli del fango, della monnezza di oggi, Martin. Forse sono quelli che ogni giorno vedo riunirsi in assemblee nei punti più disparati della città, forse sono quelli che protestano senza voce insieme agli abitanti delle periferie, forse sono quelli che, come lo si faceva col cuore di liceali, si telefonano in piena notte per una cosa che non riguardi per forza loro stessi. Almeno, non direttamente. Ma riguarda eventi così terribili, intollerabili che ti fanno ingoiare rabbia e pensare: «devo correre lì». Anche solo col pensiero. Per vedere e a capire. Perché ancora una volta è al Sud il cuore del conflitto più vivo e tragico, il più disperato e insieme stimolante: il centro di ciò che sta accadendo e potrebbe accadere alla tua generazione.
1 commento:
p.s.: volevo ringraziare l'ospitalità di tutti voi di Meltingminds, senza i quali questo racconto, e la voglia di scriverlo, non sarebbero mai stati.
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