giovedì 12 giugno 2008

La bestia.


da Sud n°11, Giugno 2008.


Non preoccuparti, sorellina: ho lasciato i miei capelli così com’erano, non li ho riempiti di gel, né ho aspettato che il sole mi scurisse un po’ di più. Tentare di camuffare la propria diversità, qui a Tapachula non serve. Sono all’estremità sud-orientale del Chiapas, a una manciata di chilometri dal Guatemala. Il vulcano Tacaná buca le nubi, sopra i tetti delle case, all’orizzonte di questa «Tijuana del Sud». Le temperature di fine novembre possono raggiungere i trentotto, trentanove gradi. E a questi climi qualunque maschera si scioglie, qualunque finzione si traduce in un bagno di sudore.
«Vuoi incontrare un nostro ospite?», mi ha chiesto Kathrin, con gentilezza.
Nel polveroso cortile dell’Albergue «Jesus El Buen Pastor» sfilano tanti uomini e donne in carrozzella, che chiacchierano tra loro. Sono circondati da nugoli di bambini nudi e senza scarpe, probabilmente concepiti tra quelle mura, che giocano a palla o si rincorrono; dalle finestre sbarrate delle stante s’intravedono altri individui stesi a letto, che guardavano la tv, e altri ancora che svolgevano lavori domestici, intrecciano cestini di vimini, cuciono a macchina, riempiono in qualche modo la propria giornata. A ognuno manca un pezzo di corpo: un braccio, una o due gambe, un occhio. Sono tutti migranti, diretti verso gli Usa, ma finiti poi divorati, stritolati e risputati come scarti di umanità, dal treno della morte: dalla «bestia».
Kathrin mi tira per la manica della maglietta, devi parlare con Jorge, un honduregno arrivato da un mesetto nel ricovero. Ci parlo, sorellina. E devo dirti la verità, mentre lo ascolto non osservo tanto gli arti inferiori, tagliati sotto il ginocchio, o la sua giovane età – quanti anni può avere: diciassette, diciotto? – quanto la pulizia, non solo fisica, che emana il suo viso: senza ferite, buchi o persino piccoli graffi. Il prezzo di un sogno, però, ce l’ha scritto dietro la schiena: sono le insegne della Mara Salvatrucha, l’organizzazione malavitosa più potente del Centroamerica. Quando decidono di raggiungere l’Eldorado, molti, come Jorge, ricorrono a chirurghi improvvisati per rimuovere i tatuaggi, le insegne di quella antica appartenenza. Con risultati spesso dolorosissimi, devastanti: come la schiena di Jorge, tutta piena di chiazze biancastre e purulente.
Il ragazzino scaccia le mosche che gli tormentano il naso, e con entrambe le mani stringe le ruote della sua carrozzella.
Come uno schiaffo, come una scarica elettrica nella schiena, gli tornano in mente quegli istanti, quel palpitare folle in una spasmodica attesa, tra i cespugli, insieme a tante ombre umane. Ecco il fischio! Sinistro nella notte, il fiato della locomotiva, dell’anaconda d’acciaio, tra gli alberi e le rocce. Era quel serpente, diretto a Nord verso gli Usa, che andava preso al volo, prima che accelerasse troppo. Le ombre si avventarono sul corpo della «bestia», come se volessero arpionarla. Jorge aveva ripassato nella sua testa, per una frazione di secondo e prima di saltare, quella tecnica appresa di bocca in bocca e che migliaia di migranti avevano imparato e tramandato, da padre in figlio: saltò con le ginocchia, non col piede perché sarebbe così caduto immediatamente. Urtò violentemente con le gambe e fu dolorosissimo, ma le mani tennero ben stretto il corrimano di acciaio e per risalirle afferrò qualunque appiglio disponibile, appiattendo tutto il suo corpo contro le lamiere. Appena trovata un po’ di stabilità, iniziò a legarsi in fretta, molto in fretta, per non cader giù quando si sarebbe addormentato lungo il viaggio. Lunghe ore di silenzio, intervallate da risvegli improvvisi, dovuti alla paura d’incontrare sul tetto del convoglio i feroci scagnozzi delle maras, pronti a taglieggiare i clandestini; o, peggio, i garroteros: la spietata polizia privata della ferrovia. Nella notte illuminata da un miliardo di stelle: vivissime, come possono essere solo nelle terre selvagge. Poi quell’urlo, solitario:
«La Migra! La Migra!».
Un nuovo salto, il buio. Ancora, silenzio.
Il ricordo s’interrompe qui, si perde sulla parete scrostata di una camera da letto.
Fuori c’è una giornata stupenda, sorellina: il cielo è terso e, contro l’azzurro accecante, si stagliano grandi palme. Penso che un cielo così dev’esserci esserci quasi tutti le mattine, in questo posto, e che probabilmente c’era anche quando Jorge era stato portato qui la prima volta, ancora con dolori lancinanti. Penso a questo limbo che ha colori vivissimi, nel quale si trovano i migranti che non ce l’avevano fatta: rimasti senza le gambe per raggiungere l’Eden, senza il coraggio di tornare a casa propria e riaffrontare l’inferno. Poi, con calma, gli chiedo cosa pensi di noi europei, di quanti come me sono venuti da così lontano, si sono avvicinati a lui, per raccogliere una storia, poterla divulgare ad altri. Non mi risponde. Si stringe nelle spalle e guarda Kathrin, con un sorriso imbarazzato, come per chiederle di farlo scendere.
Domani ti scriverò da San Cristobal. Dalle montagne. Dove il sole non è così abbagliante.

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