Riflettevo ieri sulle ultime dichiarazioni della ex modella Carla Bruni, ora first lady all'Eliseo, a proposito della battuta di Berlusconi su Obama.
"Felice di non essere più italiana."
Aldilà della condivisibile indignazione per la figuraccia internazionale, mi chiedevo quali rischi, quali ingiustizie porta con sé una tale superficialità nell'attribuire un valore (o un disvalore, come in questo caso) ad aggettivi che di per sé non voglio dire nulla, assolutamente nulla. Mi riferisco all'idea secondo cui si possa "uscire" o "entrare" da una condizione di etichettamento a piacimento, con il solo cambio di residenza, o del passaporto.
Soprattutto, mi chiedevo che senso abbia parlare, nel 2008, di condizione nazionale in un modo così grossolano e spietato. Quanti, nei giorni scorsi, sono scesi in piazza con le facce pitturate di nero, e quanti hanno (letteralmente) intasato la posta del NY Times per "chiedere scusa" a "nome dell'Italia"? Eppure anche loro, anche quelli che si sono indignati per l'infelice "abbronzato", si sono visti, improvvisamente, coinvolti e insieme ripudiati (implicitamente, ma ripudiati) nell'etichettamento.
La condizione post-nazionale riguarda tutti e probabilmente la Bruni non era più "italiana" (nel senso che intende lei) già prima di lasciare l'Italia. Così come ci sono molti iper-italiani nascosti tra il qualunquismo televisivo, con il passaporto inglese, tedesco o francesce, che hanno avuto la fortuna (o l'accortenza) di scegliere o anche semplicemente la fortuna di nascere in un paese con una storia diversa - ho detto diversa, non migliore o peggiore - della nostra.
Ci si chiedeva su queste pagine, in tempo di elezioni: "siamo sicuri che gli italiani siano migliori del governo che li rappresenta?".
Non so rispondere a questa domanda, così come non so rispondere alla domanda se gli americani in questi otto anni fossero migliori o peggiori del governo Bush, e così per i francesi nei confronti di Sarkozy. Ma sono sicuro che dietro un aggettivo - un'etichetta - che da solo non vuol dir nulla, ci sono delle differenze. E queste sì, che vanno avvalorate o disvalorate.
Se anche una minuscola minoranza è lì a dimostrare che una differenza - una resistenza - c'è ed è viva, allora vaffanculo Carlabrunì e vaffanculo il Berlusca. "L'abbiamo/l'avete votato noi/voi", ma noi/voi chi? Accetto l'onere della rappresentanza politica, non sfuggo dalle dinamiche del potere: ma non accetto d'essere incluso in campi di etichettamento superficiali. Il mio essere post-nazionale ha ben altri pesi: posso non votare ma pagherò comunque le tasse e sarò succube di un sistema economico-legale ormai globalizzato. Mai come ora le decisioni prese dai votanti (o non votanti) americani si ripercuoteranno nella mia busta paga, nella mia istruzione. Nel mio giardino. Ma questo è un altro discorso.
Quello che risalta agli occhi è che una condizione così intrinsecamente debole ha ben altri problemi, ma si dedica a riscattarsi giocando con la nazionalità.
I mandati di cattura ormai sono internazionali e il professorino brigatista verrà braccato anche in Francia, dove la sorella di Carlà è pronta a soccorrerlo. Ma è proprio così che devono andare le cose? Invece di cercare il conflitto (e l'orgoglio) giocando con le facili etichette, sarebbe meglio spostarlo sulle opinioni, sulle idee, per quanto forti e violente possano essere. Il resto del gioco - reagire al nazionalismo o razzista usando gli stessi strumenti, legittimandolo - è quantomeno rischioso: la maggior parte delle volte, poi, è ingiusto.
PM
p.s.: il video non centra nulla (oppure sì?), ma è forse la cosa migliore che gli spin-doctors di Veltroni abbiano trovato negli ultimi anni.
1 commento:
mi piace questo post. Arguto riflessivo ironico, che dire si vede che il ragazzo e' preparato.
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