L'universo di Ferreri è di natura «istintuale»: fa della forza di un'idea il perno di ogni film. Il cineasta costruisce i suoi apologhi inquietanti quasi sempre intorno a un concetto chiave, che si dilata, si espande e si accumula su sé stesso, e che alla fine si rivela spiazzante, travalicando i margini del realismo per sfociare nell'iperbole allegorica, nell'iterazione ossessiva, nel grottesco. Scambiato inizialmente per un erede del neorealismo, in realtà Ferreri si mostra un cineasta dell'angoscia esistenziale che riesce a far assumere alle proprie ansie e ai propri fantasmi una dimensione universale. Se Dillinger è morto (1969) rappresenta una sorta di paradigma dello sguardo demolitorio, iconoclasta e demistificante di Ferreri (nel finale del film un tranquillo uomo qualunque compie un omicidio che appare quasi ineluttabile), l'opera successiva, Il seme dell'uomo (1969), esibisce una sarcastica e allarmante messa in scena delle pulsioni autodistruttive della cosiddetta società dei consumi, con i suoi simboli ridotti a scorie «insignificanti» nella cornice di un desolato «paesaggio dopo la catastrofe» (atomica? ecologica? biologica?). Di lì in avanti, la sua sensibilità indocile sembra aprirsi a una visione del tutto peculiare dei sussulti indotti dai movimenti di contestazione. Non a caso, dopo aver girato La cagna (1972) con il consueto tocco sulfureo, realizza lo straordinario La grande abbuffata (1973), in cui mette in scena una sorta di crapula interiorizzata, allargata per estensione al sesso e alla foia copulatoria. Morire di eccessi gastronomici, lasciarsi andare trangugiando cibo prelibato senza ritegno ma con gran classe, scoppiare con dignità: è il rovesciamento del buñueliano fascino discreto della borghesia, in cui i protagonisti rimangono a tavola come inchiodati. I personaggi di F., invece, hanno deciso un emblematico suicidio, e se ne vanno uno alla volta, in una sorta di smisurato «cupio dissolvi».
venerdì 13 marzo 2009
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