martedì 15 settembre 2009

da "Lo straniero", giugno 2009

il testo che leggerò la sera del 2 ottobre alla Scighera per la festa di presentazione di Miciap.


Sette peccati capitali e una virtù

di Giorgio Fontana

Anestesia

Milano é una città anestetica – nel senso che é contraria all’esperienza sensoriale. Di cosa sa Milano? Mistero. Sappiamo di cosa sa Marsiglia, di cosa sa Roma, di cosa sa Praga. Invece Milano non ha un odore identificante. Puzza quando lo smog supera i livelli di guardia, ma puzza appunto di smog, come ogni altro smog: non ha fragranza, non ha profumo, non una nota peculiare.

E ancora, qual é il colore identificante di Milano? Si potrebbe dire una sorta di grigio diffuso, ma non é esatto. Una sera di giugno – una bella sera luminosa e calda – un’amica ha cercato di arrivarci. Ha cercato di isolare la sfumatura esatta di questa città: ma non ce l’ha fatta. C’é qualcosa di eternamente indistinto nel modo in cui si fa esperienza a Milano, qualcosa che non confonde tanto i sensi quanto li inganna. Udito, gusto, odorato, tatto...di strato in strato, Milano sembra progressivamente perdere il suo desiderio di farsi percepire.

Velocità

Il luogo comune del milanese che cammina al doppio della velocità é molto più che realistico. Milano é una città veloce perché abituata a divorarsi – perché il fare è costantemente più importante del fatto. A Milano, per metterla con un esempio banale, ci sono pochissime panchine. La realtà non ha tempo di essere contemplata: deve continuamente prodursi e riprodursi.

Insomma, mi ha sempre dato l’impressione di un luogo di mezzo, di un porto dove difficilmente si ha voglia di mettere le radici. Dove si sta per necessità e abitudine, più che per vero amore: sospinti a un moto informe che non differisce dalla stasi.

Avarizia

Lo splendore è una categoria urbana ben precisa. Le città splendide si offrono attraverso verticalità e orizzontalità: in un certo senso, è come se fornissero continuamente luoghi dove ci si sente al centro del cosmo. Una sensazione del genere a Milano è impossibile. Milano riflette la sua avarizia nell’assenza di splendore, o meglio – nella sua continua necessità di celare la bellezza. Le corti del centro storico sono quasi sempre sbarrate dai portoni di legno: non c’é equità nemmeno nel bello, a Milano: nemmeno nella sua forma più immediata e popolare. L’occhio è costretto a mendicare per avere un frammento di giardino, un vecchio pozzo, uno scorcio di ringhiera.

A Milano, il flaneur può essere solo un perverso, o un individuo che cerca di andare disperatamente sotto il velo delle cose. (ecco perché, mi viene da aggiungere, ci sono stati e ci sono attualmente così tanti scrittori a Milano).

Crudeltà

Una sera, nei dintorni di Lambrate, il mio amico Marco è esploso. Ha cominciato ad agitare la testa e le mani come ha voler fare a brandelli l’aria circostante, o a nuotare in un’acqua che lo stava soffocando. “Ma che vita è” diceva. E la sua vita era questa: un lavoro più o meno odiato e più o meno precario, qualche amico visto di rado, un’interminabile quantità di spazi vuoti. Niente di più terrificante, eppure. “mi sembra di impazzire” diceva, “e non capisco. mi sembra di essere dietro a un vetro e non riuscire a cogliere niente. Questa città ti fa sopravvivere quanto le basta per averti, e niente di più.”Ecco il tipo di crudeltà esercitata da Milano: sottile, esteriormente invisibile, ma interiormente devastante. Se non avete una rete sociale di un certo tipo, che proviene generalmente dagli anni studenteschi, siete spacciati. Se non avete un amore straordinario o un lavoro che vi gratifica, è la fine. Milano non vi concederà un solo angolo: non ha zone dove ripararsi quando piove, e non ha spazi dove fermarsi a tirare il fiato. Vi costringe continuamente a tenere i pugni alzati, ben piazzati ad altezza del volto, e non esiterà a tirarvi sul fondo se date cenno di affogare.

Immaterialità

Le città contemporanee sembrano viaggiare sempre più verso una dimensione immateriale: attività finanziaria, dati, internet, relazioni, non-luoghi eccetera. Milano, fra tutte le città e soprattutto fra le città italiane (così ricche di storia, che spesso questa viene eretta a giustificazione del tutto), è la più immateriale. La più inconsistente. Fondata com’è sull’attività e l’informazione, sulla rapidità di scambio e sul lavoro, deve per forza trascurare l’aspetto materiale: deve trascurare se stessa in quanto la sua materialità è un obbligo, ciarpame che va sbrigato il prima possibile – o utilizzato per fare bella figura secondo i suoi canoni. Forse anche per questo fotografare Milano è un’impresa strana e complicata. Fotografare una città significa due cose: coglierne gli aspetti più eclatanti oppure gli aspetti più segreti. Nel primo caso la foto ha una valenza quasi turistica, nel secondo sfiora quella documentaria. Ora, Milano non ha la possibilità di fotografie eclatanti. Mancando di splendore non offre alcuna prospettiva da cui partire per un’immagine memorabile. Il Duomo è talmente rinchiuso che alla peggio si può fotografarne la facciata – e allora? Mancano gli spazi. Manca un fiume che tagli la città e ne offra un quadro classico o anche solo retorico (Praga, Parigi...). Milano è priva degli spazi necessari per una fotografia essenziale. Al contrario, l’immagine documentaria si trova perfettamente a suo agio: fin troppo. (ovunque si possono trovare spunti). Da un estremo all’altro: e nel mezzo rimane questa sorta di vacuo nulla, di biancore dove si galleggia più che muoversi. Paradossalmente, pur essendo una città realista Milano è anche una città immateriale e anestetica.

Individualismo

Milano è un luogo individualista, rigorosamente fondato sull’interesse personale o tutt’al più (ma sempre meno) familiare. La conseguenza più diretta di questo atomismo sociale è la sua incapacità di gioire. Milano non gioisce mai come città, non sa trasmettere il suo senso globale, il suo battito e respiro. Non esiste alcun periodo di felicità urbana a Milano: non una festa che faccia da livellatore sociale, non un posto dove ognuno si possa riconoscere. L’offerta culturale è quasi sempre a buon livello, ma invita a una fruizione individualistica o per gruppetti già formati.


Antifuturismo

Qui esplose, cento anni fa, il movimento futurista. Oggi Milano è la città dove il futuro è diventato una variabile una variante insignificante del presente, dove la tanto decantata velocità si rattrappisce su se stessa. Uscita mutilata dalla guerra, capitale impossibile del sud Europa durante la ricostruzione, Milano è stata stroncata dalla metamorfosi edonista degli anni ’80 – di cui Tangentopoli è soltanto una sorta di culmine immorale. Da allora il futuro è negato nel senso più reciso del termine: finché mi va bene ora, tutto okay, altrimenti fottetevi.

Il diavolo dormiente

Ma ecco finalmente la virtù. Nel suo libro Il crollo delle aspettative, Luca Doninelli scrive che nel petto di Milano ancora dorme un diavolo. Perchè Milano è anche il luogo delle 5 giornate: una città irredenta, una città fondamentalmente restia a cedere del tutto. E’ paradossale che una virtù sia impersonata da un demonio, ma da un luogo del genere non ci si può aspettare nulla di meno. Dove si sente allora l’artiglio del diavolo?Innanzitutto, io credo, nella complessità. Tempo fa mi domandavo perchè uscissero così tanti libri su Milano. E mi domando ora perchè anche a me sembri necessario scriverne. La risposta è una soltanto: al di là dei suoi peccati Milano è una città estremamente complessa, e non può essere ridotta alla sua immagine di “capitale della moda”. Questo è il lato manifesto e sempre più presente. Ma c’è anche un lato nascosto. Ad esempio: Milano è probabilmente la città più multiculturale d’Italia. E’ la città che probabilmente offre più lavoro. E’ la sola città che può mirare a essere davvero internazionale. Per molti versi è una delle città più oneste: è crudele, sì, ma non mente quasi mai: tutto il male che può fare lo si scopre nel giro di qualche giorno, e difficilmente colpirà alle spalle. E’ un luogo dove c’è ancora la possibilità di fare, concretamente, qualcosa. E ha una trama fittissima di sottoculture, che attendono solo di essere scoperte. Ma l’artiglio del diavolo si sente anche nei dettagli più semplici. Nel girare in bici una domenica d’aprile lungo il Naviglio della Martesana: nelle ultime trattorie a Sud d’inverno, a darci dentro con riso e vino: nell’ammirare la periferia dall’alto del Monte Stella, con un paio di birre e le mani in tasca, d’estate. Qui dorme il diavolo. La materialità di Milano, del tutto negata nel centro, esplode violentemente ai margini – nei nuovi quartieri dove la vita si rintana e cerca di ripararsi, di reinventarsi. Uscite da quella fottuta cerchia dei Navigli. Andate in Bovisa. Andate nei dintorni di via Padova, andate a bervi una birra a 2 euro e 50 alla bocciofila Caccialanza. Andate al Giambellino.Andate ad ammirare la storta armonia dell’oltre-circonvallazione. Fate qualsiasi cosa, ma cercate, frugate: muovetevi. In questa città troppe scelte storiche hanno condannato la bellezza a una condizione marginale dell’esperienza urbana. Ma è ancora possibile dire no, e rimettere la bellezza in circolo. Qualunque essa sia. Alla fine delle parole, mi accorgo che Milano è inchiodata proprio a tale condizione: al suo lato manifesto e al suo volto nascosto che ci impedisce di abbandonarla, che ci invita a provare ancora fiducia. Perchè Milano è, dopotutto, anche questo. La città dove dorme un diavolo. E io aspetto con ansia il suo risveglio.

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