(da Puebla a Oaxaca: 320 km, 4 ore e mezza)
"Quando il sole stava per tramontare i vulcani erano ormai scomparsi, così come gli alberi: all'orizzonte, dietro le colline verdeggianti e disabitate, si stagliava una cordigliera di montagne rossastre come il cielo, e al posto delle conifere ora c'erano i cactus. Enormi. Alti almeno cinque o sei metri, a stelo unico e diritti, mi osservavano come un esercito di sentinelle sparse e silenziose, mentre calava la notte e mi avvicinavo ad Oaxaca. "
L'ostello era ospitato in una piccola casa di ringhiera, con un cortile occupato da poltrone e tavolini in legno e molte piante. A gestirlo c'erano due ragazze cordiali, una canadese e una tedesca, che vivevano ad Oaxaca da diversi anni. Non avevano perso, pero', quel fastidioso colorito pallido inframmezzato da macchie paonazze. Dopo tutte le raccomandazioni formali mi hanno indicato la stanza dove avrei dormito, insieme ad altri cinque ragazzi e ragazze che al momento non c'erano: era un buco spartano ma pulito, dove gli altri letti erano tutti ben rifatti e con sopra ripiegati i vestiti dei miei coinquilini."
"Cos'era successo l'anno scorso? Queste terre coloratissime e sorvegliate dai cactus si erano incendiate tutte d'un colpo. Ecco i fatti di Oaxaca, che si incatenano l'un l'altro, in un lungo cordone insanguinato che ha inizio nella primavera del 2006: in quel periodo si svolse uno sciopero organizzato dal sindacato degli insegnati a causa degli stipendi bassi e della scarsità dei fondi destinati alle scuole. Il governatore dello Stato, Ulises Ruiz (del PRI), accusato apertamente di corruzione e di aver spinto i sindacati vicini al suo partito a boigottare i giornali che si dichiaravano contrari alla sua politica, rispose reprimendo duramente la manifestazione con l'azione degli agenti in assetto anti-sommossa. Il 22 maggio i manifestanti contrattaccarono occupando alcuni quartieri della città di Oaxaca; il governo statale invio' circa duemila celerini per reprimere anche l'occupazione, ma i manifestanti sono riuscirono a resistere alle cariche della polizia e la protesta continuò. Fu in questo periodo che agli insegnanti si aggiunsero varie associazioni politiche, sindacali, studentesche e contadine dando vita ad un ampio fronte di protesta, unitosi poi nell'APPO (Asamblea Popular de los Pueblos de Oaxaca, Assemblea Popolare della gente di Oaxaca). A settembre dell'anno scorso la Marcia per la dignità dei popoli di Oaxaca attraverso' tutto il Messico per andare a protestare fin davanti al Senato nella capitale. La situazione precepito'. Il 27 ottobre Brad Will, un giornalista statunitense di Indymedia, fu raggiunto da un colpo di arma da fuoco durante gli scontri, e morì sul colpo. Com'era prevedibile, con questa uccisione i media internazionali finalmente si accorsero di cio' che stava accadendo da quelle parti e i primi stendardi inneggianti all'Oaxaca Libre comparvero davanti ai centri sociali di mezza Europa, bisognosa di un altro mito ribelle dopo l'eclissarsi dei chiapanechi. Oltre al giornalista americano intanto morirono i anche il professor Emilio Alonso Fabián e Esteban López Zurita. Il 28 ottobre il presidente del Messico Vicente Fox ordino' il ripristino della sicurezza e la repressione si intensifico'. Il 2 novembre la polizia federale preventiva cercò invano di chiudere l'Autonoma Università di Oaxaca Benito Juarez, da dove veniva trasmessa Radio Universidad, radio legata all'APPO. Il 25 novembre 2006, a seguito della settima Megamarcha, si verificarono gli scontri piu' pesanti dall'inizio delle proteste: un bilancio di sei morti, un centinaio di feriti, fra cui venti per colpi d'arma da fuoco, oltre centosessanta arrestati, e ingentissimi danni materiali. In totale ci sono quindi stati ben ventiquattro morti in questa cittadina che sembrava non poter rappresentare un pericolo per nessuno, se non per le chapulines."
"Verso sera finalmente ero di nuovo libero. Dopo una lungo giro del centro storico mi sono fermato un po' a scrivere sui bordi di una fontana prosciugata, alle spalle del mercatino dove prima avevo comprato la camicia. Una ragazzina, aveva quindici anni non di piu', mi si e' avvicinata chiedendomi di dove fossi, avendo ovviamente capito dai miei capelli ricci senza gelatina e dal mio taccuino che non potevo essere un messicano, sicuramente non un messicano di quelle parti. Maledizione la penna non scriveva piu'! Ho chiuso il quaderno e le ho spiegato di questo misterioso Paese di nome Italia, che si trova in una specie di lago e che ha la forma di uno stivale. Si e' seduta vicino a me, mentre due bambine piccole si erano infilate nella vasca della fontana per inscenare una sorta di duello a suon di bastoncini di legno: avranno avuto cinque o sei anni, e portavano abiti tradizionali un po' lordati dalla polvere e dal terreno, ma sempre coloratissimi. Si chiamava Madgalena, aveva diciotto anni e lavorava in quelle bancarelle li' davanti, e si ricordava di me perche' avevo comprato la camicia nella tenda di sua cugina. C'erano anche i suoi genitori: eccoli li', mi salutavano mentre intrecciavano i vimini di un cestino per la frutta: uno la mamma, uno il papa'. Mi sembrava un mercato di brave persone, senza dubbio non frenetico anche perche' di turisti ce n'erano davvero pochi. Una bambina intanto aveva centrato l'altra nell'occhio, che piangendo le ha gridato: "Pendeja! Puta!".
Ho riconosciuto un volto tra i turisti sbalorditi in quel ben di Dio, una signora che stava rovistando tra alcuni laccioli colorati di stoffa: era la moglie del Dott. Carlo Campanile, dell'ambasciata. Non mi aspettavo di trovarla proprio lì, proprio in vacanza quel giorno, ad Oaxaca. C'erano anche Eugenio, riconoscevo la sua chioma bionda: e' proprio lui che ho salutato per primo, carezzandogli la testa. Ma non credo m'avesse riconosciuto subito. La madre nemmeno, poi dopo qualche istante di dubbio mi ha sorriso e poi stretto la mano, ricordandomi come questo posto fino ad un anno fa fosse assolutamente infrequentabile. Sara'. Lei era la moglie del Dott. Campanile, potevo capirlo. "
"Magdalena mi ha chiesto se avessi una macchina fotografica, e se potevamo quindi farci una foto insieme. Era bassina e tarchiata, pero' con un viso veramente dolce. Anche lei con quel sorriso, ecco ora non saprei come definirlo, solare certo, ma che insieme era anche melanconico, rassegnato e timido. Appena ho cacciato la macchina dallo zaino, sono spuntate due sue amiche, una di tredici e una di quindici anni, che si sono offerte di ritrarci insieme nella stessa foto. La piu' piccola ha rilanciato, ridacchiando: fatevi la foto abbracciati. La piu' grande, mentre prendeva la mira con l'obiettivo, ha aggiunto: lei baci lui sulla guancia. E cosi' abbiamo scattato la foto, mentre il resto del mercato, esclusi i turisti che pensavano sicuramente ad un possibile caso di pedofilia da parte mia, ha sottolineato l'episodio con un fragoroso scrocio di applausi. Pensavo fosse finita lì, e invece le due hanno tirato fuori dalle tasca delle loro gonne un cellulare, e con quello hanno iniziato a fare nuove foto a ripetizione, per poi scambiarsale l'un l'altra tramite mms. Tutto sotto lo sguardo divertito delle due bambine che prima si menavano, e adesso mi guardavano curiose. Magda -aveva preteso che la "salvassi" così nella mia rubrica- voleva ringraziandomi inviando una canzoncina al mio numero, tramite bluetooth. Ma il mio cellulare era troppo vecchio, ragazzina, non immaginavo nemmeno che voi potevate avercelo, scusami. E poi mi sentivo in un budello umano pacifico e rincuorante che sicuramente era il piu' bel regalo della giornata. La piu' piccola vedendomi impacciato a salutarle esplose in una risata impertinente.
"Adios, senor!", gridava, mentre le altre due si riaccovacciavano sul marciapiede a intrecciare cestini. "Y regrese pronto!"
Uno stormo di corvi si e' alzato in volo sopra le nostre teste.
Era quasi l'ora di cena ed il sole era scomparso ormai del tutto. Ma il colore delle case, delle strade, delle locande di quella citta' non sbiadiva. L'amara considerazione che siamo tutti dei fottutissimi egoisti non mi poteva farmi dimenticare quella foto col cellulare. Le nostre frasi d'ammirazione, le mie e dei miei compagni di viaggio occasionali riguardavano -tranne pochi casi- tutte degli oggetti: l'architettura delle case, le merci, i tessuti, i gioielli. Il John o la Nadine che albergavano in ognuno di noi ammiravano la qualita' dell'artigianato senza che lo sfiorasse nemmeno l'idea di condividere la vita degli artigiani che producono quegli oggetti. Luis andava in estasi davanti alle produzioni degli Zapotechi, ma fotografava i loro autori come se fossero un'estensione di quella produzione, e non l'origine. Questi ragazzi si interessavano molto alle civilta' pre-ispaniche e sicuramente avranno visto mille bandiere dell'Oaxaca Libre sventolare su qualche centro sociale di Amsterdam o Berlino. Ma al tempo stesso restavano completamente estrenei a questo mondo."
"Non c'era molto altro tempo per Oaxaca, anche se mi piangeva il cuore ad abbandonarla così, dopo un passaggio tanto rapido e superficiale che mi sapeva di scopata randagia. Eppure c'era ad aspettarmi, a undici ore di viaggio e quindi aldila' della notte, la selva oscura del Chiapas, che in quelle zone dov'ero diretto si sarebbe gia' fatta frontiera, quella col Guatemala. Una frontiera incarnata dalle contraddizioni e dal malfamato nome di una citta' che il Dott. Campanile ricordava con ribrezzo ("Tapachula, bisogna essere pazzi per andarci") e da un villaggio che nemmeno volle citarmi, rendendolo così ancora piu' affascinante per il mio viaggio, ancor piu' degno di un'annotazione sul mio taccuino, di un cambio di programma, di essere visitato: Ciudad Hidalgo."
(fine dodicesimo capitolo/ continua)
Ecco dove mi trovo col mio ostello (vedi il dito), rispetto al centro di Oaxaca (i due quadrati verdi in basso al centro)
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