martedì 4 marzo 2008

Billie Holiday

La stanza odora di fiori e tappeti.
Io resto nudo sul letto, a guardare le costellazioni di polvere che filtrano il cielo.
Lei, silenziosa di fronte allo specchio, si sistema i capelli con le dita, si rallegra le palpebre.
C’è un disco di Billie Holiday nel computer e dal piano di sotto salgono suoni di cucina.
Lei chiude la camicia abbottonandola dal basso. Da sopra la mia spalla, spio i fori triangolari dei suoi bottoni.
Lei appoggia la matita alle palpebre e apre la bocca.
Chiudo il lembo del lenzuolo tra i denti.
Penso che da esattamente un anno i miei risvegli si assommano in strati di lenzuola nuove, avvolti su una lingua nuova che ancora non possiedo.
Sbircio i camini attraverso la finestrella sul tetto, chiedendomi se un anno prima avrei mai potuto immaginare questo ennesimo risveglio. Chiudo gli occhi di nuovo e nel pensiero ruzzolano decine di frasi che non ho mai compreso. Gioco per un po’ con l’idea di un filo d’aquilone che casualmente trasporta la mia vita, altrove.
Se questo mattino fosse stato un altro, mi sarei lasciato scivolare nel pensiero gelato della fragilità delle cose.
Ma lei ora indossa un maglioncino color perla, si volta frusciando e mi appoggia le mani sul petto. I suoi capelli cadono a uno a uno sul mio rimuginare.
Caffé?
Un sorriso percorre la distanza a piccoli passi di ragno e le si arrampica sulle braccia.
Lei appoggia il viso sulle mia spalla e inspira.
Poi mi soffia sul volto. Mi guarda ancora un attimo, prima di allontanarsi dalla stanza.
Dal pianoterra salgono il suono triste di un giradischi e una voce di donna.
La guardo scendere le scale, mentre nella linea curva delle sue braccia corrono a rifugiarsi tutti i suoni della casa.
Quando si fa di nuovo silenzio, Bilie Holiday inizia una nuova canzone.
Allungo le gambe sotto il lenzuolo e prendo una sigaretta da terra.
Fumo con gli occhi aperti, il collo disteso sul cuscino, ascoltando i frammenti di una conversazione femminile.
Penso al suono degli uccelli che incornicia la finestra, cerco di immaginarli. Penso a un lupo che ho visto anni prima nel giardino di un albergo, a un cavallo tremante nella penombra torrida d’agosto.
Spengo la sigaretta in un bicchiere. Chiudo le braccia sul petto.
Ricordo i tavoli sul lungomare di Palermo e quella striscia di prato che sembra una linea di trucco attorno al porto. Rimango qualche secondo a sognare tre macchie di the sul fiore rosso di una tovaglia, poi di colpo mi ritrovo a gridare insieme a venti ragazzini dentro un autobus che corre tra le montagne. Quando l’autobus arriva alla fine della curva, precipito ridendo sul tappeto elastico e mio padre si siede sulla panchina, nel parco. Vedo mio padre accendersi una sigaretta, avrei voglia di parlargli, ma il mio sguardo scivola adesso sui volti scuri dei manovali nascosti dietro le quinte del teatro e sui nodi slacciati delle mie scarpe di vernice. Inciampo sulla porta, mentre dall’aula buia vengono suoni di flauto. C’è freddo.
Allora, i suoi capelli si sciolgono a uno a uno sul mio sognare.
E la luce diventa di nuovo pomeriggio.
Sento Billie Holiday che sorride nel microfono, mentre nella stanza torna il silenzio.
In quell’istante, tutti e tre prendiamo fiato insieme.

1 commento:

paulmoss ha detto...

i tuoi racconti mi ricordano tanto, tantissimo le fotografie di Jan Saudek...
lo dico solo perche' l'ho appena visto al PAC, abbinato con quel geniaccio malato di Witkin...

http://www.cristinaarce.com/images/photo_saudek04.jpg

ottimo consiglio, del resto...