mercoledì 30 settembre 2009
Auguri Franzina!
Donna dalle palle di ferro, combattiva e piena di energie
cerca nuove sfide per la sua nuova vita...
Riuscirà a sbronzarsi prima della mezzanotte?!?!?
Se volete apportare alcool al suo sangue alieno
fatevi un salto alla Casa 139 stasera...
Chissà che la troviate a ballare la pizzica
con quella maschera!
Ah...la cosa più importante!!!
Auguri Fra, oggi è il tuo giorno, è davvero
l'inizio di una nuova vita, me lo sento!
Buon Compleanno...
martedì 29 settembre 2009
Ancora 99 Posse (reloaded).
I gruppi di sinistra e non solo hanno organizzato fiaccolate, attacchinaggi, cortei. Si sono mobilitati cantanti, intellettuali, politici.
Ma la posizione del nuovo covo della destra è perfetta. Le viuzze che circondano l'edificio sono strette e senza entrate secondarie. Il centro sociale di Casapound è un fortino inattacabile.
Ieri si sono riuniti di fronte alla stazione metro diversi gruppi in occasioni delle celebrazioni delle Quattro Giornate. Erano presenti anche i 99 Posse redivivi, al completo. Tutt'altra storia rispetto alla depressione del primo concerto, già raccontato. Zulù, che ancora a giugno vegetava in un centro di riabilitazione per dipendenza da crack, ha cantato immerso nella folla, senza palco, mentre Jovine e Messina suonavano in un baracchino di plasticaccia illuminato a neon, da mercato periferico africano anni Sessanta. Atmosfera vera, cattiva, rabbiosa.
Gli eventi ai quali bisogna esserci sono quelli più spontanei.
lunedì 28 settembre 2009
La Faccia di Briatore - Ministri new Video
domenica 27 settembre 2009
Kalamu@Casa139-merc 30 settembre
La voce di Irene, è come un sottile filo rosso che congiunge alla perfezione riuscendo ad armonizzare ritmi così diversi e farli coesistere in perfetta armonia grazie a una voce potente e profonda.
inzio concerto ore 22:00
ingresso 5 euro con tessera arci
Venite,da, così festeggiamo anche la nostra Franzina...
sabato 26 settembre 2009
Coda di Lupo - Fabrizio De Andrè tira le somme sui movimenti del '77
Qualche anno dopo, la storia di un impiegato, fabrizio torna a parlare di politica. Tenta un bilancio e, per farlo, parte da lontano. Prova a tracciare una storia dell'antagonismo, usando un artificio: muove dagli indiani d'america e dal loro impatto colla civiltà occidentale per arrivare agli "indiani metropolitani" e al movimento del '77, che chiude il decennio cominciato nel 1968.
De André ci parla, in questa canzone scritta nel 1978, dell'ultimo vero conflitto che ha segnato la società italiana: quello fra l'estrema sinistra e il più grande partito comunista d'europa, incapace nella sua totale cecità di sfruttare la vittoria elettorale del 1975, impegnato com'era a fare professione di moralismo e di austerità!
Il dio degli inglesi "sono" i valori della borghesia che vengono usati per far presa sull'animo di una classe che esce fuori dalla resistenza e dalla liberazione! Questi ultimi impersonati dal nonno.
Il dio perdente è lo spauracchio agitato, negli anni cinquanta, contro i primi sprazzi di ribellione giovanile, che assumono anche i connotati tipici delle bande giovanile e dei "teddy boys"!
L'alternativa? Un impiego da ragioniere!
Il dio goloso è quello capace di eliminare, fagocitandoli, i partigiani che non avevano smesso di credere che la liberazione avrebbe dovuto portare a ben altri risultati!
Il dio della scala ci parla della prima contestazione che, in italia, ebbe l'eco della stampa. Ci parla delle uove marce scagliate contro gli invitati alla prima della scala, in un'italia già e ancora divisa in due. Ci parla della prima "violenza" collettiva fatta e subita da parte di una generazione che si affacciava, allora, alla storia.
Il dio a lieto fine, che manca, è quello che ad un decennio di lotte e di contestazione risponde con il numero chiuso nelle università, incapace di recepire le istanze che scaturivano dalla società di allora. La strada viene, in qualche modo tracciata!
Ed arriviamo a generale capelli corti (Luciano Lama) che incarna l'deologia più becera fondata sui valori assurdi del lavoro (il dio fatti il culo) che davanti al più imponente movimento che anima l'italia del dopo guerra non trova niente di meglio da fare che attuare la sua squallida provocazione alla sapienza di roma (il little big horn). E' la più grande vittoria del movimento, ma anche l'inizio della sconfitta!
L'ultima strofa ci parla della lotta senza sbocco alcuno, la lotta armata da una parte e i sommovimenti culturali dall'altra(i teatri di posa dove scaricare la propria rabbia, quasi una sorta di feroce autocritica!). E la loro tragica separazione (ne riparlerà ne la domenica delle salme a proposito dei cantautori e delle loro voci potenti per il "vaffanculo"). La risposta individuale ai problemi della sopravvivenza (la pesca con le bombe a mano), gli atti di eroismo inutili da parte di chi continuava a lottare nelle piazze e nelle fabbriche.
Rimangono solo pochi disperati, sparuti, che hanno perso la memoria e sparano anche a chi, tutto sommato, non meriterebbe una tale sorte!
Il cerchio si chiude: la risposta che rimane ai loro falsi dei è un povero dio senza fiato e senza speranza che si gloria di questo suo tragico modo d'essere.
Quando ero piccolo m'innamoravo di tutto correvo dietro ai cani
e da marzo a febbraio mio nonno vegliava
sulla corrente di cavalli e di buoi
sui fatti miei sui fatti tuoi
e al dio degli inglesi non credere mai.
E quando avevo duecento lune e forse qualcuna è di troppo
rubai il primo cavallo e mi fecero uomo
cambiai il mio nome in "Coda di lupo"
cambiai il mio pony con un cavallo muto
e al loro dio perdente non credere mai
E fu nella notte della lunga stella con la coda
che trovammo mio nonno crocifisso sulla chiesa
crocifisso con forchette che si usano a cena
era sporco e pulito di sangue e di crema
e al loro dio goloso non credere mai.
E forse avevo diciott'anni e non puzzavo più di serpente
possedevo una spranga un cappello e una fionda
e una notte di gala con un sasso a punta
uccisi uno smoking e glielo rubai
e al dio della scala non credere mai.
Poi tornammo in Brianza per l'apertura della caccia al bisonte
ci fecero l'esame dell'alito e delle urine
ci spiegò il meccanismo un poeta andaluso
- Per la caccia al bisonte - disse - Il numero è chiuso.
E a un Dio a lieto fine non credere mai.
Ed ero già vecchio quando vicino a Roma a Little Big Horn
capelli corti generale ci parlò all'università
dei fratelli tutte blu che seppellirono le asce
ma non fumammo con lui non era venuto in pace
e a un dio fatti il culo non credere mai.
E adesso che ho bruciato venti figli sul mio letto di sposo
che ho scaricato la mia rabbia in un teatro di posa
che ho imparato a pescare con le bombe a mano
che mi hanno scolpito in lacrime sull'arco di Traiano
con un cucchiaio di vetro scavo nella mia storia
ma colpisco un po' a casaccio perché non ho più memoria
e a un dio senza fiato non credere mai.
venerdì 25 settembre 2009
mercoledì 23 settembre 2009
un passo avanti e due indietro?
immaginavo che smaniaste per avere le più scottanti novità sulla mia vita, perciò vi accontento.
Sono di nuovo uno studente! O meglio, lo sarò da domani mattina, quando avrò pagato il mio tributo di denaro e sangue alle casse dell'università.
Finalmente, dopo cinque anni di bocconi e di studi raccapriccianti, mi dedico a studiare qualcosa che mi piace!
Non ci potevo credere nemmeno io...
Ed eccomi di nuovo a mettermi in coda coi giovini nei porticati sozzi dell'edificio centrale dell'università Goldsmiths di Londra. Destinazione: MA in Cultural Studies.
il seguito presto....
Se non è fascismo non saprei come chiamarlo.
- Mario Cervi, su "Il Giornale" di oggi.
martedì 22 settembre 2009
Arriva il Fatto Quotidiano
Il Fatto Quotidiano...
http://www.antefatto.it/presentazione
Il Fatto Quotidiano avrà 16 pagine, tutte a colori. Uscirà sei giorni a settimana al costo di 1.20 €, tranne il lunedì. Sarà un giornale di carta e un giornale web. Sarà diretto da Antonio Padellaro. Avrà una redazione di giovani agguerriti. Si avvarrà di un gruppo di firme, di inviati di punta e di autori satirici che hanno condiviso con noi la lunga battaglia contro il regime berlusconiano, senza sconti per un’opposizione troppo spesso complice.
Siamo un piccolo vascello corsaro...
lunedì 21 settembre 2009
Per una ontologia dell’esilio.
di
Vera Linhartová
(pubblicato su Sud n°O)
Per venticinque anni, finché la questione sembrava d’attualità, mi sono sempre astenuta dall’affrontare l’argomento dell’ « esilio ». Non soltanto mi pareva secondario rispetto alla mia situazione, ma per di più ero da sempre convinta che si trattasse di una nozione inadeguata e superata. La mia convinzione è del resto immutata. Se, nonostante tutto, ho accettato di riflettere oggi sulla questione, è innanzitutto perché presumo che, nella sfera del pensiero umano, non ci siano argomenti proibiti; ma, sopra ogni altra cosa, perché considero che una messa a fuoco del tema potrebbe ritornare utile. A mio avviso si sviluppano interpretazioni del termine troppo spesso facendosi prendere dal sentimento o dalla passione, rinunciando invece ad analizzarlo in modo critico. Diciamo, tanto per cominciare, che la nozione d’esilio non ha senso che in certe società sedentarie, visto che non avrebbe alcuna ragione d’essere presso i nomadi. Ed anche se, ai nostri giorni, la maggior parte delle nostre società appartiene alla prima categoria, all’interno di queste stesse società, accanto alle persone che restano attaccate tutta la loro vita ad un solo ed unico luogo, non riuscendo nemmeno a concepire che ce ne potrebbe essere uno diverso, esistono altri individui che preferiscono lasciare la relativa sicurezza di un luogo immutabile per percorrere il mondo o più semplicemente per trasportare i loro penati altrove.La stessa antica distinzione tra sedentari e nomadi non è per niente abolita, ma ha semplicemente assunto forme differenti, per cui, invece di applicarsi a comunità intere, diventa la scelta di singoli individui. Prima d’ogni altra cosa si tratta dunque di un’opzione essenzialmente personale che in seguito determina tutto un modo di vivere. Un nomade cambia luogo su questa terra senza preoccuparsi degli usi e delle convenienze, perché la scelta dei luoghi è per lui una questione di preferenze e di necessità intima, non di obbligo. Va da sé che le mie simpatie vanno a questi uccelli migratori. Eppure, tale modo di vita è contrario all’interesse generale delle comunità stabilite.Che vuol dire la parola « esilio » ? D’origine latina, exilium significa letteralmente « fuori di qui », « fuori da questo luogo ». Implica dunque l’idea di un luogo privilegiato tra tutti, d’un luogo ideale e senza pari. Nella Grecia antica, questo luogo ideale era rappresentato dalla polis e, presso i romani, dall’urbs, o dalla civitas: la società organizzata, più che un luogo geografico, rappresentava un valore supremo al quale ogni individuo, nel suo proprio interesse, doveva restare legato tutta la vita. Ed è proprio in tali società che l’esilio era considerato come un castigo particolarmente severo. Essere banditi dalla comunità, perdere il diritto alla protezione che essa assicurava ai cittadini – o ai sudditi- in cambio dell’obbedienza alle sue leggi, perdere il luogo familiare per essere consegnati all’ignoto: in questo doveva consistere la tragedia degli esuli.
Conformemente a questa prima accezione, l’esilio è rimasto un castigo, uno strumento di repressione, lungo tutta la storia dell’Europa, fino all’epoca moderna. Paradossalmente- e il fatto è assai recente- questa antica misura di punizione ha finito col diventare un crimine. Il ribaltamento di visione è sopravvenuto nel momento in cui l’esilio, da forzato, è divenuto volontario. Sotto ogni dittatura o presso altri regimi totalitari, l’individuo è considerato come proprietà dello stato, e, tra le numerose altre costrizioni cui soggiace, non ha alcun diritto di decidere in quale paese abbia intenzione di vivere. Lasciare il territorio nazionale volontariamente, e senza l’approvazione delle autorità, è dunque assimilato ad un atto d’ostilità dichiarato. Misure punitive sono adottate all’indirizzo di quei disertori che sono gli esuli volontari. E poiché il castigo dell’essere banditi ha perso ogni efficacia, queste misure consistono nella condanna in contumacia alla prigionia, alla perdita della nazionalità e dei diritti civili, e alla confisca dei beni personali. Fa seguito anche l’impossibilità a rientrare un giorno nel paese che si è lasciato, perché per questo tipo di crimini non è prevista la prescrizione.
Ciò che semplicemente cerco sin dall’inizio di dire è che, a mio avviso, il termine “esilio” non è che una comoda etichetta che si attribuisce, in modo superficiale e indistinto, a tutto un insieme di situazioni e comportamenti diversi.
In realtà, la parola si riferisce a fenomeni differenti. Abbiamo già visto come una distinzione d’ordine storico debba essere fatta tra esilio forzato ed esilio volontario. A sua volta, l’esilio volontario può essere concepito in due modi differenti. Nel primo, esso verrà concepito come una fuga davanti alle avversità e ad una minaccia immediata, per cui sarà allora vissuto come un tempo sospeso, provvisorio, in attesa di un ritorno improbabile verso il luogo ed il tempo prima della rottura. Nel secondo, come un punto di partenza verso un “altrove” incognito, per definizione aperto ad ogni possibilità; e, in questa ottica, si svolgerà in un tempo pieno, come un inizio senza scopo definito, e soprattutto senza la speranza speciosa del ritorno. Ora, è evidente che rispetto a questa seconda opzione il termine stesso, ”esilio”, diventa particolarmente inappropriato, dal momento che colui che è partito senza rimpianti e senza il desiderio di ritornare sui propri passi considera il luogo che ha appena lasciato ben meno importante di quello in cui arriverà. Non vivrà più ormai “fuori da questo luogo”, ma s’impegnerà sulla strada che porta a un “senza luogo”, verso quell’altrove che rimane per sempre al di fuori di ogni attesa. Proprio come il nomade, lui sarà “a casa sua” dovunque metterà piede.
Nel quadro di determinate istituzioni, nel mezzo di circostanze socio-politiche tutto sommato esterne, l’esilio volontario è sempre un grido di rivolta. Eppure questo grido risuona una sola volta, nello spazio di un istante, nel momento stesso in cui la decisione è presa: è un no senza condizioni e irrevocabile. Non lo si può né prolungare, né ripetere, perché è stato lanciato una volta per tutte. Eppure, ci è impossibile vivere nella negazione pura. Inoltre, la vita concreta di un essere umano non si svolge nei limiti di un certo quadro istituzionale e di determinate circostanze socio-politiche. La vita è un affare privato. Una volta definita la nostra posizione di principio davanti alle circostanze che ci condizionano e che non abbiamo scelto, ci restano da fare molte altre cose. Siamo allora di fronte ad un nuovo bivio, dove una strada conduce all’esilio subÌto, l’altra verso l’esilio trasfigurato.
Per quanto concerne l’esilio subÌto, la sua principale caratteristica consiste nell’aspettativa che il tempo sospeso abbia fine e nella speranza di ritrovare lo status quo precedente, immutato. Eppure, l’esilio liberamente scelto è un’occasione straordinaria, che bisogna cogliere al volo, di cui approfittare senza tergiversare. Sono sempre stata convinta del fatto che nella vita di un uomo il dovere verso la terra di appartenenza o verso i legami di sangue non sia un fattore determinante. La mia prima sensazione in seguito alla partenza è stata quella di una grande leggerezza, di una non-appartenenza a quale che fosse la comunità, a quale che fosse il paese. Avevo il sentimento, o piuttosto la certezza, che da quel momento in avanti quello che avrei fatto e quello che sarei stata non sarebbe dipeso da altri che da me. Una morte e una resurrezione. L’esercizio quotidiano della libertà è una cosa rischiosa. Doppiamente rischiosa per chi viene da un paese dove tutto ciò che non è imposto è proibito. In un mondo disseminato di divieti, l’ orientazione è facile, perché resta poco spazio per le decisioni individuali, poche fessure in cui aprirsi un cammino verso la luce. L’eccesso di libertà, si sa, può essere fatale per soggetti a lungo abituati a un’oppressione costante, ma può anche essere salutare. Non sarebbe esatto dire che una delle prime lezioni che ho potuto trarre dalla mia nuova situazione è stata la modestia. Certo, sono divenuta modesta, ma non era che la conseguenza di una scoperta ben più essenziale: quella della relatività delle cose, di quanto queste siano poco importanti. E’ facile acquisire la notorietà in un paese che, preso nella sua totalità, conta tanti abitanti quanti quelli di una metropoli di un altro paese. E’ facile farsi passare per uno scrittore in una città dove gli scrittori si contano nel numero di una qualche decina e sono, di fatto, costantemente esposti, ben visibili sulla scena pubblica. E che non mi si fraintenda: non si tratta qui di una giudizio di valore verso grandi e piccoli paesi. Quel che mi preme è un cambiamento radicale di prospettiva, come è stato espresso prima di me in questi termini: “ preferisco essere un pesce minuscolo nell’oceano, piuttosto che una grossa carpa in uno stagno”
Ho dunque scelto il luogo dove volevo vivere, ma ho anche scelto la lingua che volevo parlare. Spesso si ha la pretesa che, più di ogni altro, lo scrittore non sia libero nei suoi movimenti, perché resta legato alla sua lingua in un vincolo indissolubile. Credo che si tratti ancora di uno di quei miti che servono da scusa alla gente timorata, li riconforta a vivere una vita di cui, alla fine, a scanso di ogni difficoltà, si sono accontentati. Qui mi si opporrà senza dubbio una qualsivoglia idea preconcetta sulla responsabilità dello scrittore rispetto al proprio paese. Ora, a mio avviso, nessun popolo, né alcun paese al mondo costituisce una comunità unica, isolata dalle altre. Nessuna di esse merita che le si sacrifichi la propria vocazione, perché ci sono cose che nessuno farà o dirà al posto mio. Quale che sia il luogo dove agirò, quale che sia la lingua che adotterò per parlare, il beneficio per la comunità umana è lo stesso. Lo scrittore non è prigioniero di una sola lingua. Perché, prima di essere scrittore, è innanzitutto un uomo libero, e l’obbligo di preservare la sua indipendenza contro ogni ostacolo passa sopra ogni altra considerazione. E non parlo qui di quelle difficoltà insensate che un potere abusivo cerca di imporre, ma di restrizioni tanto più difficili da superare in quanto intenzionali e in quanto richiamano al sentimento del dovere e della lealtà verso il paese di origine
Come ho detto all’inizio di questo mio intervento, le mie simpatie vanno ai nomadi: non mi sento nell’anima un sedentario. Sono allora in diritto di dire che il mio esilio è venuto a colmare quello che, da sempre, era il mio augurio più caro: vivere altrove. La mia decisione era stata presa molto prima della mia partenza, ed il concorso di particolari circostanze- che non qualificherei come felici o infelici, ma strettamente neutre- non ha fatto altro che indirizzarmi lungo una strada che, anche in altre circostanze, avrei preso ugualmente.Sono da sempre convinta che un destino individuale compiuto coinvolge l’umanità tutta intera. E credo anche che la nostra aspirazione alla pienezza, quale che sia la maniera in cui questa si realizzi, non saprà accontentarsi di un ritorno sui propri passi. In questa ottica, la questione del luogo in cui abbiamo scelto di vivere è – e non c’è da dubitarne – trascurabile. Andro’ più lontano. Per chi è partito per i sentieri sinuosi di un pellegrinaggio senza fine, la questione dell’esilio è priva di senso, perché qualsiasi cosa accada, egli vive in un “ non luogo” che è un perpetuo punto di partenza aperto in tutte le direzioni.
Discorso pronunciato al convegno “ Parigi-Praga, intellettuali in Europa, 10 dicembre 1993
domenica 20 settembre 2009
In fondo quello che avrei voluto dire quella sera al Lacerba era:
(P. Magoni/F.Spinetti)
In tutti questi anni ho eluso le certezze,
Cibandomi soltanto di gioie e amarezze.
E tutti i tentativi di aprire nuove porte
Sono stati positivi anche se non si sono aperte.
Lo so che non è facile uscirne con coraggio,
In fondo resto fragile in questo mio viaggio
Che affronto a testa alta,
Che affronto un po’ di fuori,
Sapendo che mi aspettano chilometri
E dolori.
E attingo a mani basse e con le orecchie tese
Pagando le mie tasse e le mie spese.
Eppure certe notti aspetto rannicchiata,
Che il carro presto trotti e arrivi la giornata.
Ma io continuo a esistere e tu non puoi negarmi
Di avermi visto piangere e aiutato ad asciugarmi
Tu hai visto cadere la mia realtà virtuale,
E piano piano insieme costruire
Qualcosa di reale.
Tu mi hai visto cadere
E aiutato a rialzarmi,
In tutte quelle sere che abbiamo fatto tardi.
Le sere da ubriachi,
Le notti in cui ti penti,
A letto coi vestiti e piano ti addormenti.
Riuscirò a capirti un giorno, o forse mai.
Spero di non tradirti in quello che mi dai.
La vita è così fragile può andare in un momento,
Come una foglia labile in un alito di vento.
Giochiamo a nascondino
Coi dubbi e le amnistie.
Col fiato tuo vicino
E le tue labbra sulle mie
Last Munute di Ivano Fossati
Alle frontiere che passo
Non mi sento sicuro
Nel cuore dell'Europa le cose
Non stanno così
Qui vincitori e battuti
Fanno affari lo stesso
Nella calma apparente
Di una fotografia
A Berlino c'è un vestito
Che ti voglio comprare
A Berlino la luce piove
Dai lampioni
Come la nebbia
Intorno a MilanoCosì familiare
La donna che guida il mio taxi
Fa di sì con la testa
Dice che può negoziare
Le ragazze da compagnia
La vita privata
Quaggiù non esiste
E io brucio un altro mese
Lontanissimo da te
In Europa
C'è una strada che mi voglio
Ricordare, una casa
A Varsavia, c'è un teatro
Dove ti voglio portare
Quando ritorno indietro
Quando ritorno
La gente del mondo
Che ti ama o non ti ama
E' la stessa
Basta una luce negli occhi
Per capirlo
Bevo con gli sconosciuti
Ogni sera
Io qui in capo al mondo e tu
Io qui in capo al mondo
Eh no, eh no
Non mi faccio illusioni
Studio vocaboli nuovi
E pazientemente aspetto
Mi manchi
Negli aeroporti illuminati
La notteE nell'angolo santo
Del cuore
Mi vedi
Ti spedisco tutti i giorni
Un pensiero
E la voce è un soffio
In Europa
C'è una strada che mi voglio
Ricordare
Un vestito che
Devo comprare per te
Lafra col chiodo in un filmino anni' 70 dalla pellicola rovinata e ingiallita...e la guida di Berlino già uscita dalla valigia!
completamente rincoglionita dal torpore domenicale,
mentre aspettavo che il caffè zampillasse nella
tazzina, mi sono letta un po' di Rolling Stone,
babbato ieri al Miff.
Mi sono fermata sull'editoriale di Massimo Coppola,
(con grande piacere di Spocchius), intitolato
Se avessi ancora 19 anni io....
Leggo, sperando che Coppola non mi senta:
"...Se avessi 19 anni ecco cosa farei della mia
estate e della mia vita. Innanzitutto chiamerei
Bruno e Steve e Lorenzo e Picci e Luca e Giò e
chi c'è e gli direi di farsi trovare alle 00.00
all'aereoporto di Linate, da dove partirebbe
l'ultimo volo per Berlino. All'aereoporto ruberemmo
riviste straniere, ci faremmo una cannetta seduti sul
guard-rail che sta fuori da uno degli ingressi delle
partenze, cercheremmo di rimorchiare le hostess
di terra al gate. Arrivati a Berlino faremmo due
telefonate per capire dove sta la roba buona ( da bere,
suonare, guardare, fumare, ballare, mangiare,
sputare, vomitare). Ci andremmo. All'alba andremmo
a suonare le pietre sotto la s-bahn insieme a tre ragazze
di Manchester ( che esisterebbe ancora, nel frattempo).
Faremmo l'amore mentre il primo treno del mattino
rosicchierebbe le rotaie sopra di noi salutando
l'angelo della cartolina, che starebbe sempre là.
Saremmo dei giovani nostalgici, saremmo -e felici!
........."
Poi l'articolo prosegue ed è altrettanto folle e
piacevole, ma ve lo risparmio.
Chi ha orecchie per intendere, intenda...
venerdì 18 settembre 2009
da "Il bell'Antonio" di V.Brancati
E in Italia nemmeno le donne...Quando una società non può contare nemmeno sulle sue prostitute, è finita! Non c'è proprio nulla da sperare!...."
T come Tetrodotossina.
Il veleno funziona così: prima un leggero intorpidimento della lingua e delle labbra. Successivamente arriva un formicolìo sulla faccia e sulle estremità, che può essere seguito da sensazione di leggerezza. Possono comparire anche mal di testa, dolore epigastrico, nausea, diarrea e/o vomito. Il secondo stadio dell'intossicazione è costituito da una paralisi ingravescente: molte vittime dell'intossicazione sono incapaci di muoversi e possono presentare difficoltà anche a mantenere la posizione seduta. Viene colpito anche il linguaggio.
Alla fine la vittima, nonostante sia completamente paralizzata, può essere cosciente e in alcuni casi completamente lucida fino a poco prima della morte.
In Giappone il pesce palla viene ancora servito, trattato da pochi cuochi diplomati che sanno bene come estrarre il veleno dalle carni. Il segreto, dicono, è lasciargli un po’ di quella tossina sufficiente a dare un po’ di formicolio alle labbra e alla lingua, e un senso di leggera euforia.
L'importante è iniziare da giovani.
Quest'anno ricorre il quarantennale del primo grande scoop di Bruno Vespa.
Non si ricorda che abbia mai chiesto scusa né a Pietro Valpreda né ai suoi familiari.
Tra i libri più utili degli ultimi due secoli
mmm...adesso ho sonno e mi secca scrivere una recensione, perciò, o vi fidate, o niente. :)
giovedì 17 settembre 2009
Most of top artists of that time were present at this mega-famous festival and Queen of course had to be there. Each artist got from ten to twenty minutes for their show; no playback or soundcheck were allowed. Queen hesitated because playing without a soundcheck is always a risk. But then they accepted the rules and their 20 minutes of fame came on at 18:44 GMT.
Queen were on top form and not only according to Bob Geldof and Elton John, they stole the show. They played only the intro to Bohemian Rhapsody (the opera part couldn't be played from the tape as playback was forbidden & there wasn't enough time anyway). Instead of the opera part, Radio Ga Ga followed. We Will Rock You was reduced to the first verse (and the final guitar solo) only. Is This The World We Created was performed by Freddie and Brian only later in the evening.
Zulù si sposa.
Qualcosa che richiamava alla luce l’impotenza di una parte della società, la sua inadeguatezza a trovare nuove voci, nuovi slogan, nuovi punti di riferimento che facciano battere il cuore. Che linguaggio deve parlare l’Italia che non ha più fiducia nelle istituzioni «democratiche», nella politica, nella partecipazione civile, nell’impegno concreto per il cambiamento della società? Lì, nel mezzo del concerto, si sono visti trentenni che si trastullavano con filtri gonfi di tabacco e cannabis, e con l’altra mano, quella libera, mimavano distrattamente la forma di una rivoltella. Puntata verso l’alto, in cielo. Adesso su internet circolano immagini di un anziano signore che occupa ogni angolo possibile della vita pubblica, intossicandola con il suo affarismo perverso, le sue manie, le sue ossessioni da Quarto Potere. E nel frattempo c’è chi si fa portavoce dell’alternativa, della diversità, del meno-siamo-meglio-stiamo, mimando pistole e istigando alla violenza cieca e fracassona. Ma è un armamentario che non fa paura più a nessuno. L’accanimento con cui questi gruppuscoli si dedicano alla propria demolizione è corrispondente alla loro inconsistenza nella società.
Del resto è un universo più piccolo di quanto appaia, quello nel quale fluttuano le cellule del radicalismo italiano, e non solo. Alterna precariato e zapatismo, controlli della Digos e «segnalazioni» per possesso di droga, «resistenze attive» e tecniche di coltivazione dell’hashish; un universo fatto da ritualità provinciali – il centro sociale occupato dove si inviano mail in Palestina ma si parla solo napoletano, il baretto sotto casa, la facoltà occupata –, o addirittura domestiche – spaghetti e vino, sonno e svogliatezza, sussulti rivoluzionari e lunghi torpori.
Un concerto perfetto, suo malgrado verrebbe da dire. Che ha mostrato senza pietà a che punto è la sinistra radicale. Anzi, a che punto è sempre rimasta. La destra al potere sarà sicuramente razzista, fascista e puttaniera, ma ha dimostrato di avere una perversa vitalità sconosciuta a questa sinistra mortifera e depressiva.
mercoledì 16 settembre 2009
Come Ceasescu.
Berlusconi organizza uno spettacolo in stile Ceausescu per celebrare le consegna delle prime 400 case sulle oltre 40.000 necessarie per i terremotati. Viene azzerata qualunque controprogrammazione. Si piegano Rai 2, Rai 3 viene oscurata. Le partite di Champions non vengono nemmeno citate nei Tg. Persino Mediaset viene umiliata per favorire il massimo ascolto possibile del salotto servile di Vespa. Il quale, perfettamente calato nel luogo, accompagnava il presidente-edile nel suo percorso fatto di autocelebrazioni sovietiche, attacchi violenti all'opposizione, spudorate menzogne. "Ma questo è un record!", gridava il viscido maggiordomo ad ogni pié sospinto.
Ma la storia non poteva finire qui. La serata dittatoriale ha raccolto solo il 13% di share, una nullità. Fa meglio Gabriel Garko (si preannunciava una scena con lui nudo) nella serie tv programmata - sperando di far peggio - dall'incolpevole Canale 5. Il presidente puttaniere, l'imbonitore illiberale viene battuto dalla stessa cultura del trash e della carnazza che ha contribuito a diffondere.
Perché dunque insistere sulle vicende personali del caporione? Perché tartassare i lettori con prostitute di nome e de facto, intercettazioni miserevoli, mercatino politico anziché di global warming, della democrazia indiana, delle migrazioni globali? Perché i giornali stranieri, che di solito affrontano temi un tantino più elevati - ma anch'essi hanno la loro sovrabbondane dose di trash - ugualmente non parlano d'altro?
Perché dall'affrontare lo squallore si può trovare la chiave per affrontare tutto il resto. I migranti muoiono perché un proto-dittatore-mediale viene lasciato impunito nell'indifferenza, nella rinuncia di chi contesta solo ciò che è extra-confine. L'ambiente, la ricerca, lo studio, la realizzazione del singolo dipendono (anche) dalle manie microscopiche di chi ci governa, dal suo comportamento, dal suo modo di guardare sul piazzale che lo osserva e lo celebra. Il caporione incazzato dunque attaccherà ancora, con i mezzi che gli sono più consoni: minacce in stile mafioso dai giornali. Ulteriore censura sui mezzi di informazione. Querele. Dossier misteriosi. Ma l'arma che più va temuta è lo sfiaccamento fisico e mentale delle opposizioni, tristemente schiacciate da una burocrazia moderata e senza sbocco e un radicalismo narciso che non riesce a guardare oltre il suo orticello. La realtà, specchio impietoso, ha dimostrato che gli unici veri schiaffi all'Egoarca sono arrivati da un manzo glabro e dalla cessione di Kakà.
martedì 15 settembre 2009
gaia loves mario gorni (chi vuole amarlo con lei giovedi?)
Videoscreening a cura di Mario Gorni (Careof DOCVA) e Claudia D’Alonzo (Digicult)
presentazione e proiezione video giovedì 17 settembre 2009 ore 17.30
presso DOCVA Documentation Center for Visual Arts, via Procaccini 4, Milano
intervengono Claudia D’Alonzo, Elisa Gattarossa, Mario Gorni, Marco Mancuso, otolab
i video rimangono in visione dal 17 al 26 settembre 2009, dalle 15.00 alle 19.00
Giovedi 17 settembre alle ore 17.30 Careof DOCVA, presenta Quando l’occhio trema. Il flicker tra cinema, video e digitale, videoscreening a cura di Claudia D’Alonzo e Mario Gorni, in collaborazione con INVIDEO e Digicult.
In occasione dell’inaugurazione, nel corso di un incontro aperto al pubblico, si confronteranno sul tema del ‘flicker’: Claudia D’Alonzo del network Digicult; Elisa Gattarossa di INVIDEO; Mario Gorni, direttore di Careof DOCVA; Marco Mancuso, direttore di Digicult; otolab, collettivo milanese di sperimentazione audiovisiva.
Quando l’occhio trema - tratto dall’omonimo film di Paolo Gioli del 1989 - costruisce un percorso storico e metodologico sull’uso della tecnica del flicker attraverso una selezione di dieci lavori, provenienti dagli archivi video DOCVA e INVIDEO, insieme a opere di autori collegati al network internazionale di Digicult.
Il ‘flicker’ è una tecnica applicata in molte forme d’arte, cinema sperimentale su pellicola, ambienti ed installazioni di luci, video analogico e audiovisivo digitale.
Tale tecnica si basa su uno specifico fenomeno percettivo. La normale percezione dell’immagine in movimento avviene con una frequenza di 24 fotogrammi al secondo. Diminuendo questa frequenza tra i 6 ed i 18 fts, si crea uno sfarfallio visivo che corrisponde ad una stimolazione diretta del nervo ottico, ad una proto-visione nella quale i ritmo visivo si sincronizza direttamente con le nostre onde celebrali.
Il flicker rientra in quella categoria che Edmund Husserl definisce come ambiguità percettiva, in quanto offre la possibilità di travalicare le convenzioni del conoscere abituale per comprendere e rapportarsi al reale attraverso nuove possibilità, date dalla destabilizzazione - in questo caso violenta, a volte traumatica - di abitudini percettive assuefatte e automatizzate.
Gli artisti sperimentano attraverso il flicker sia un piano fenomenologico, quello della stimolazione anomala del nostro apparato percettivo, che un’analisi strutturale dei codici dell’immagine in movimento.
La rassegna Quando l’occhio trema, propone una parziale ricostruzione del percorso storico di questa sperimentazione artistica, attraverso la proposta di autori della storia del cinema e del video, insieme ad alcuni autori del digitale contemporaneo: Claudio Ambrosini, ape5+miky ry, Scott Arford, Alessandrà Arnò, Gerard Cairaschi, Paolo Chiasera, Antonin De Bemels, Thorsten Fleisch, Paolo Gioli, Graw & Bockler, Granular Synthesis (Kurt Hentschläger/Ulf Langheinrich), Girts Korps, otolab, Steina e Woody Vasulka.
Canzone per oggi...Under water love, Smoke City
da "Lo straniero", giugno 2009
Sette peccati capitali e una virtù
di Giorgio Fontana
Anestesia
Milano é una città anestetica – nel senso che é contraria all’esperienza sensoriale. Di cosa sa Milano? Mistero. Sappiamo di cosa sa Marsiglia, di cosa sa Roma, di cosa sa Praga. Invece Milano non ha un odore identificante. Puzza quando lo smog supera i livelli di guardia, ma puzza appunto di smog, come ogni altro smog: non ha fragranza, non ha profumo, non una nota peculiare.
E ancora, qual é il colore identificante di Milano? Si potrebbe dire una sorta di grigio diffuso, ma non é esatto. Una sera di giugno – una bella sera luminosa e calda – un’amica ha cercato di arrivarci. Ha cercato di isolare la sfumatura esatta di questa città: ma non ce l’ha fatta. C’é qualcosa di eternamente indistinto nel modo in cui si fa esperienza a Milano, qualcosa che non confonde tanto i sensi quanto li inganna. Udito, gusto, odorato, tatto...di strato in strato, Milano sembra progressivamente perdere il suo desiderio di farsi percepire.
Velocità
Il luogo comune del milanese che cammina al doppio della velocità é molto più che realistico. Milano é una città veloce perché abituata a divorarsi – perché il fare è costantemente più importante del fatto. A Milano, per metterla con un esempio banale, ci sono pochissime panchine. La realtà non ha tempo di essere contemplata: deve continuamente prodursi e riprodursi.
Insomma, mi ha sempre dato l’impressione di un luogo di mezzo, di un porto dove difficilmente si ha voglia di mettere le radici. Dove si sta per necessità e abitudine, più che per vero amore: sospinti a un moto informe che non differisce dalla stasi.
Avarizia
Lo splendore è una categoria urbana ben precisa. Le città splendide si offrono attraverso verticalità e orizzontalità: in un certo senso, è come se fornissero continuamente luoghi dove ci si sente al centro del cosmo. Una sensazione del genere a Milano è impossibile. Milano riflette la sua avarizia nell’assenza di splendore, o meglio – nella sua continua necessità di celare la bellezza. Le corti del centro storico sono quasi sempre sbarrate dai portoni di legno: non c’é equità nemmeno nel bello, a Milano: nemmeno nella sua forma più immediata e popolare. L’occhio è costretto a mendicare per avere un frammento di giardino, un vecchio pozzo, uno scorcio di ringhiera.
A Milano, il flaneur può essere solo un perverso, o un individuo che cerca di andare disperatamente sotto il velo delle cose. (ecco perché, mi viene da aggiungere, ci sono stati e ci sono attualmente così tanti scrittori a Milano).
Crudeltà
Una sera, nei dintorni di Lambrate, il mio amico Marco è esploso. Ha cominciato ad agitare la testa e le mani come ha voler fare a brandelli l’aria circostante, o a nuotare in un’acqua che lo stava soffocando. “Ma che vita è” diceva. E la sua vita era questa: un lavoro più o meno odiato e più o meno precario, qualche amico visto di rado, un’interminabile quantità di spazi vuoti. Niente di più terrificante, eppure. “mi sembra di impazzire” diceva, “e non capisco. mi sembra di essere dietro a un vetro e non riuscire a cogliere niente. Questa città ti fa sopravvivere quanto le basta per averti, e niente di più.”Ecco il tipo di crudeltà esercitata da Milano: sottile, esteriormente invisibile, ma interiormente devastante. Se non avete una rete sociale di un certo tipo, che proviene generalmente dagli anni studenteschi, siete spacciati. Se non avete un amore straordinario o un lavoro che vi gratifica, è la fine. Milano non vi concederà un solo angolo: non ha zone dove ripararsi quando piove, e non ha spazi dove fermarsi a tirare il fiato. Vi costringe continuamente a tenere i pugni alzati, ben piazzati ad altezza del volto, e non esiterà a tirarvi sul fondo se date cenno di affogare.
Immaterialità
Le città contemporanee sembrano viaggiare sempre più verso una dimensione immateriale: attività finanziaria, dati, internet, relazioni, non-luoghi eccetera. Milano, fra tutte le città e soprattutto fra le città italiane (così ricche di storia, che spesso questa viene eretta a giustificazione del tutto), è la più immateriale. La più inconsistente. Fondata com’è sull’attività e l’informazione, sulla rapidità di scambio e sul lavoro, deve per forza trascurare l’aspetto materiale: deve trascurare se stessa in quanto la sua materialità è un obbligo, ciarpame che va sbrigato il prima possibile – o utilizzato per fare bella figura secondo i suoi canoni. Forse anche per questo fotografare Milano è un’impresa strana e complicata. Fotografare una città significa due cose: coglierne gli aspetti più eclatanti oppure gli aspetti più segreti. Nel primo caso la foto ha una valenza quasi turistica, nel secondo sfiora quella documentaria. Ora, Milano non ha la possibilità di fotografie eclatanti. Mancando di splendore non offre alcuna prospettiva da cui partire per un’immagine memorabile. Il Duomo è talmente rinchiuso che alla peggio si può fotografarne la facciata – e allora? Mancano gli spazi. Manca un fiume che tagli la città e ne offra un quadro classico o anche solo retorico (Praga, Parigi...). Milano è priva degli spazi necessari per una fotografia essenziale. Al contrario, l’immagine documentaria si trova perfettamente a suo agio: fin troppo. (ovunque si possono trovare spunti). Da un estremo all’altro: e nel mezzo rimane questa sorta di vacuo nulla, di biancore dove si galleggia più che muoversi. Paradossalmente, pur essendo una città realista Milano è anche una città immateriale e anestetica.
Individualismo
Milano è un luogo individualista, rigorosamente fondato sull’interesse personale o tutt’al più (ma sempre meno) familiare. La conseguenza più diretta di questo atomismo sociale è la sua incapacità di gioire. Milano non gioisce mai come città, non sa trasmettere il suo senso globale, il suo battito e respiro. Non esiste alcun periodo di felicità urbana a Milano: non una festa che faccia da livellatore sociale, non un posto dove ognuno si possa riconoscere. L’offerta culturale è quasi sempre a buon livello, ma invita a una fruizione individualistica o per gruppetti già formati.
Antifuturismo
Qui esplose, cento anni fa, il movimento futurista. Oggi Milano è la città dove il futuro è diventato una variabile una variante insignificante del presente, dove la tanto decantata velocità si rattrappisce su se stessa. Uscita mutilata dalla guerra, capitale impossibile del sud Europa durante la ricostruzione, Milano è stata stroncata dalla metamorfosi edonista degli anni ’80 – di cui Tangentopoli è soltanto una sorta di culmine immorale. Da allora il futuro è negato nel senso più reciso del termine: finché mi va bene ora, tutto okay, altrimenti fottetevi.
Il diavolo dormiente
Ma ecco finalmente la virtù. Nel suo libro Il crollo delle aspettative, Luca Doninelli scrive che nel petto di Milano ancora dorme un diavolo. Perchè Milano è anche il luogo delle 5 giornate: una città irredenta, una città fondamentalmente restia a cedere del tutto. E’ paradossale che una virtù sia impersonata da un demonio, ma da un luogo del genere non ci si può aspettare nulla di meno. Dove si sente allora l’artiglio del diavolo?Innanzitutto, io credo, nella complessità. Tempo fa mi domandavo perchè uscissero così tanti libri su Milano. E mi domando ora perchè anche a me sembri necessario scriverne. La risposta è una soltanto: al di là dei suoi peccati Milano è una città estremamente complessa, e non può essere ridotta alla sua immagine di “capitale della moda”. Questo è il lato manifesto e sempre più presente. Ma c’è anche un lato nascosto. Ad esempio: Milano è probabilmente la città più multiculturale d’Italia. E’ la città che probabilmente offre più lavoro. E’ la sola città che può mirare a essere davvero internazionale. Per molti versi è una delle città più oneste: è crudele, sì, ma non mente quasi mai: tutto il male che può fare lo si scopre nel giro di qualche giorno, e difficilmente colpirà alle spalle. E’ un luogo dove c’è ancora la possibilità di fare, concretamente, qualcosa. E ha una trama fittissima di sottoculture, che attendono solo di essere scoperte. Ma l’artiglio del diavolo si sente anche nei dettagli più semplici. Nel girare in bici una domenica d’aprile lungo il Naviglio della Martesana: nelle ultime trattorie a Sud d’inverno, a darci dentro con riso e vino: nell’ammirare la periferia dall’alto del Monte Stella, con un paio di birre e le mani in tasca, d’estate. Qui dorme il diavolo. La materialità di Milano, del tutto negata nel centro, esplode violentemente ai margini – nei nuovi quartieri dove la vita si rintana e cerca di ripararsi, di reinventarsi. Uscite da quella fottuta cerchia dei Navigli. Andate in Bovisa. Andate nei dintorni di via Padova, andate a bervi una birra a 2 euro e 50 alla bocciofila Caccialanza. Andate al Giambellino.Andate ad ammirare la storta armonia dell’oltre-circonvallazione. Fate qualsiasi cosa, ma cercate, frugate: muovetevi. In questa città troppe scelte storiche hanno condannato la bellezza a una condizione marginale dell’esperienza urbana. Ma è ancora possibile dire no, e rimettere la bellezza in circolo. Qualunque essa sia. Alla fine delle parole, mi accorgo che Milano è inchiodata proprio a tale condizione: al suo lato manifesto e al suo volto nascosto che ci impedisce di abbandonarla, che ci invita a provare ancora fiducia. Perchè Milano è, dopotutto, anche questo. La città dove dorme un diavolo. E io aspetto con ansia il suo risveglio.
lunedì 14 settembre 2009
domenica 13 settembre 2009
nei prossimi giorni al Centrale (via Torino)
So let me introduce to you... the one and only Billy Shears! What do you see when you turn off the lights?
L'unico motivo plausibile per comprare una strafottuta console-succhiacervelli è questo gioiello della EA Games. Questa volta i programmatori americani hanno creato un vero capolavoro. Un "simulatore di rock band" che vi permetterà di ripercorrere i passi dei Fab Four dalle fumose atmosfere del Cavern Club di Liverpool al tetto dell'hotel di "Get Back", passando per lo Shea Stadium di New York, il Budokan di Tokyo, le lisergiche atmosfere del '67, etc.
Cercate su internet il fantastico trailer del gioco.
In questo video c'è l'intro di Sgt. Pepper's / With the little help of my friend.
sabato 12 settembre 2009
The Band & Neil Young - Helpless (Live 1978)
"They got it now, Robbie"
venerdì 11 settembre 2009
giovedì 10 settembre 2009
Mi chiamavano...bacchettona...?!?!?!?!?
Altro che Sprite zero!!! ;-)
il Pensatore Selvaggio
martedì 8 settembre 2009
lunedì 7 settembre 2009
sabato 5 settembre 2009
un genio!
Il milionario e l’adolescente si erano già scontrati l’anno scorso, quando Cartrain usò foto del famoso teschio di diamanti di Hirst, intitolato For the love of God (Per amor di Dio) per realizzare sei collage, anch’essi chiamati «Per amor di Dio», messi in vendita per 65 sterline su un sito web d’arte. In una delle opere, il teschio parla al telefono e tiene un dollaro in mano, in un’altra sta in un cestino del supermercato insieme alle carote. Una chiara presa in giro dell’opera di Hirst, che in generale Cartrain considera «un rigurgito di opere di artisti degni di nota come Duchamp», come spiega al Corriere in un’email piena di errori di ortografia e di punteggiatura. «Ho pensato che se lui faceva l’iconoclasta contro la Chiesa potevo anch’io giocare un po’. E la sua reazione è stata di rabbia e di fastidio». Hirst lo ha denunciato alla «Design and Artists Copyright Society» (ironico secondo alcuni, visto che lui stesso era stato accusato di plagio per quell’opera) e ha costretto il sito 100artworks.com a consegnargli i collage e il profitto di 200 sterline. Non si scherza con Hirst.
Ma il ragazzino non ha recepito il messaggio. E così il 2 luglio ha rapito le matite e poi ha realizzato un falso manifesto della polizia, con foto della scatola «Faber Castell» e descrizione del furto, in cui invitava chi avesse informazioni a contattare gli agenti. Ha affisso il poster all’entrata della Tate. Dopodiché ha chiesto il riscatto: «Per la restituzione delle matite di Damien Hirst sane e salve, vorrei in cambio le mie opere d’arte consegnategli a novembre. Non è una gran richiesta: Hirst ha tempo fino a fine mese oppure il 31 luglio le matite verranno temperate. È stato avvertito».
ritorna 'NDO VAI, sperando in una bella staggione
A tratti straziante, magnifica Anne Hathaway.
poi l'atteso Videocracy, la cui promozione é stata bandita dalle reti RAI e MEDIASET per il contenuto ostile al premier.
sulla falsa riga dello stile michaelmoore, é impressionante nella prima mezz'ora, quella che riguarda l'ascesa della TV commerciale in Italia. Culismo e trash la fanno da padroni, tutto quello che dalla nostra quotidianità rimuoviamo come squallido diventa la dominante di un'operazione culturale imponente, destinata a incidere sulla vita del paese per generazioni.
Viene l'impulso a imbracciare le armi.
Lele Mora fa apertamente apologia di fascismo mostrando gli inni mussoliniani registrati sul suo cellulare. Un fantoccione candido e sorridente che sembra uscito dal Mondo Nuovo di Huxley.
Poi una digressione su Fabrizio Corona diluisce la forza narrativa del documentario, soffermandosi a lungo su ciò che sembra più la sponda di un sistema, che non un pezzo fondamentale dell'ingranaggio.
Non male, ricostruisce bene una certa anima del mondo in cui viviamo e che sempre meno siamo disposti a condividere.
APPELLO X LA LIBERTA' DI STAMPA
mi faccio vivo per la prima volta dopo le "vacanze" con il link alla pagina per firmare l'appello di Repubblica per la difesa della libertà di stampa.
E' importante. A chi di voi non l'avesse già fatto, consiglio caldamente di farlo al più presto e di girare il link magari alle persone più vicine.
http://temi.repubblica.it/repubblica-appello/?action=vediappello&idappello=391107
a presto!
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